Filippo Facci, Libero 18/12/2013, 18 dicembre 2013
INASPRIRE IL CARCERE DURO AI BOSS SERVE SOLO AI PM IN CRISI D’IDENTIT
È difficile non diventare dietrologi quando ci sono dimezzo le procure siciliane e una certa «antimafia» che è in palese crisi di identità, stretta attorno a un processo praticamente morto - quello sulla cosiddetta trattativa - ma eternamente bisognosa di rilanciarsi attraverso la denuncia di attentati improbabili e la ricerca di una «tensione» che manca giustamente da anni, esattamente come il genere di mafia «stragista» che viene continuamente evocata. Nell’arco di qualche giorno si è letto di un attentato al pm siciliano Antonino Di Matteo (minacciato nientemeno che da Totò Riina) e poi si è letto del vicepremier Angelino Alfano che ha paventato d’inasprire il 41bis, cioè il carcere duro: scenari che vanno decodificati o, al minimo, ricondotti alla realtà dei fatti disponibili.
COME LA TORTURA
1) È in corso una palese operazione di ri-accreditamento di Angelino Alfano verso l’antimafia seria e decisamente meno seria, un chiaro ed ennesimo smarcamento dal suo passato più recente.Solo questo spiega la convocazione in pompa magna (e mediatica) del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, laddove Alfano ha ritenuto di dover incontrare anche personaggi del calibro di Salvatore Borsellino, questo prima di preannunciare che i magistrati minacciati (quattro in particolare) per i loro spostamenti potranno avere a disposizione un carro armato modello Lince (già usato in Afghanistan) e anche un bombjammer, marchingegno che neutralizza i dispositivi attivabili con telecomando. Lunedì, al termine dell’audizione alla Commissione antimafia, il ministro Alfano ha sparato che «lo Stato è pronto a indurire ancora di più il carcere duro », il che che ha tutta l’aria di essere un’altra captatio benevolentiae verso l’antimafia: sia perché faceva riferimento a un caso di non provata esistenza (quello di Riina che d’un tratto, dal carcere, si mette a minacciare il pm Di Matteo) sia perché indurire il 41bis pare invero difficile, visto che diversi organismi internazionali già lo considerano alla stregua della tortura.
2) È palese anche un tentativo di ammantare di torbidità il moribondo processo sulla trattativa. L’associazione tra «la politica» e le presunte minacce a Di Matteo è ricorrente soprattutto sulle consuete gazzette di procura, ma va detto che la fondatezza a paternità di queste «minacce» - al di là del fatto che c’è un’indagine che se ne occupa - lasciano molti dubbi. La stragrande maggioranza di queste minacce è costituita da lettere e scritti anonimi: un dossier dell’autunno 2012 con vaghe «rivelazioni » e una lettera del marzo scorso che annunciava l’eliminazione di Di Matteo «in alternativa a quella di Massimo Ciancimino», sempre evocando imprecisati ambienti romani. Il resto sono voci, deduzioni e pettegolezzi, a parte la vicenda delle «minacce» di Riina che vedremo poi. In linea di massima gli scritti anonimi andrebbero cestinati, ma a Caltanissetta - che indaga - li hanno presi sul serio perché l’autore pareva conoscere tutti gli spostamenti di Di Matteo e altri dettagli sulla sua sicurezza. Un’ottima ragione perché la procura di Palermo, prima che guardare a inquietanti mandanti, si guardi in casa: non sarebbe certo la prima volta che esponenti delle forze dell’ordine tramassero contro gli stessi ambienti che devono proteggere. Il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, tuttavia, nell’aprile scorso sembrava voler attribuire agli anonimi un significato superiore: «Stiamo vivendo un momento storico simile al ’92, c’è una situazione di instabilità politica, proprio come quando gli esposti anonimi vennero sottovalutati». L’ansia sembra la stessa già fatta propria da Angelino Alfano lunedì scorso: «Non possiamo escludere che ci sia la tentazione di riprendere una strategia stragista». Non si può escludere. Posto che non si può escludere neanche l’apocalisse, verrebbe da rispondere che molto, però, porta a escludere, perché di una mafia militare e corleonese in grado di compiere stragi, da una ventina d’anni, non vi è più traccia. Ma non si può escludere.
3) Le vite blindate di certi magistrati meritano rispetto - sempre - ma questo non significa accettare a scatola chiusa qualsiasi congettura sulle effettive minacce che ricevano. Ed eccoci al caso di Antonino Di Matteo, «minacciato di morte da Totò Riina » nell’indifferenza anzi ne «i silenzi dei palazzi», come spiegava ieri Repubblica per la penna di un giornalista amico suo. Tutto deriva dalla registrazione di alcune conversazioni di Riina con un boss della Sacra Corona Unita durante l’ora d’aria nel carcere di Opera. Molti giornali hanno riportato virgolettati di queste conversazioni, ma non è chiaro se alcun giornalista li abbia mai visti mentre pare assodato che il nome di Di Matteo, nelle conversazioni, non viene espressamente mai fatto. Lo stesso ministro Guardasigilli, non senza un certo imbarazzo, ha dovuto precisare che «dall’attività svolta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non risultano elementi espliciti di minacce da Riina nei confronti di magistrati». L’ipersensibilità alle parole di Riina peraltro è nota: quando a suo figlio in visita disse semplicemente che «la Juve è una bomba » (ottobre scorso) alla Procura di Caltanissetta non mancò chi temette un messaggio in codice che inaugurasse una nuova stagione stragista.
Tornando alla scorsa settimana, comunque, ogni «codice» sarebbe stato abbandonato e la frase più eclatante sarebbe questa: «Tanto deve venire al processo, è tutto pronto. Organizziamola questa cosa, facciamola grossa, in maniera eclatante, e non ne parliamo più, dobbiamo fare un’esecuzione come quando c’erano i militari a Palermo». Una frase tutta da verificare, anzitutto. E va pure detto, nell’attesa, che l’intercettazione in cui si presume che Riina parli di Di Matteo è stata predisposta dalla Dia, o meglio: da Di Matteo. E va pure detto - nonostante non ci sia ancora prova che Riina parlasse di lui, o che stesse progettando alcunché - che a essere convinto che il bersaglio fosse Di Matteo è lo stesso Di Matteo: «Se mi torcono un capello, questa volta c’è la prova, è lì, nel video» ha detto ieri a Repubblica. Di dubbi, Di Matteo, non ne ha neanche mezzo: «L’ordine di morte partito da Riina e tutti quegli anonimi sono arrivati in sincronia quando, anche dopo il rinvio a giudizio, abbiamo deciso di non fermarci con l’inchiesta». Quella sulla trattativa.
NUOVA STAGIONE
Può essere assolutamente che Riina parlasse di Di Matteo e che tutte le nostre osservazioni siano solo sterili e antipatizzanti esercitazioni. Resterebbero da capire, in ogni caso, molte cose. Anzitutto una mafia - vecchia o nuova - che d’un tratto di metta a mandare lettere anonime e a preannunciare i suoi attentati, come non ha mai fatto nella sua storia. In secondo luogo andrebbe inquadrato questo «nuovo» Riina che d’un tratto simette a minacciare magistrati e, in generale, a spezzare il «low profile » che ha contraddistinto uno stile fatto di silenzio omertoso e proteso anzitutto a salvaguardare la sua famiglia e la propria immagine, chiamiamola così. Ecco: e su questo Riina rinnovato e improbabile che è scesa una cortina di silenzio nei giornali e nell’antimafia. I casi, forse, sono due. Il nuovo Riina preannuncia una nuova stagione di mafia; oppure, nelle intenzioni di chi lo sta usando, una nuova stagione di antimafia.