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 2013  dicembre 18 Mercoledì calendario

QUANDO PER ESSERE CORRETTI SI ESAGERA


Conoscevo da bambino una maestra amica di mia nonna, anche lei maestra. Alta e segaligna, spesso abbigliata con un turbante, quest’amica era figlia di un professore già allievo all’Università di Bologna di Giosuè Carducci.
In omaggio al quale aveva composto versi in cui inneggiava al senso panico della natura e agli amori delle lepri sulle colline dell’Appennino emiliano. Intitolandoli, sulle orme delle Odi barbare del maestro (ma con scarsa fantasia), Echi barbari.

Sicuramente non ignaro, ma altrettanto sicuramente incurante, delle implicazioni, in un empito di classicismo il professore aveva battezzato la figlia Saffo. In effetti poi «la Saffo», come veniva chiamata, non si maritò mai, né le si conoscevano amori di sorta. Cosa non così rara nei tempi passati, quando capitava di incontrare persone, almeno all’apparenza, asessuate. In ogni caso il professore ebbe fortuna a vivere alla fine dell’Ottocento anziché ai tempi nostri, dato che oggi l’uso disinvolto del nome della poetessa di Lesbo l’avrebbe fatto incorrere in aspre censure. Infatti «l’aggettivo “saffico”... richiama atmosfere lascive e seducenti, adatte a stuzzicare anche il lettore maschio». Così almeno dettano le «Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone Lgbt» promulgate, è il caso di dirlo, dall’Unar, Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali, con il patrocinio (ahimè!) del Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio.
Anziché il condannato «saffica/o», le Linee guida raccomandano l’uso di «lesbica/o» (non ignorando, ma considerando a quanto pare ininfluente che rimandino entrambi allo stesso soggetto, cioè la summenzionata Saffo). Ma soprattutto invitano perentoriamente ad adottare il termine «ellegibiti» (Lgbt) che sta per lesbica, gay, bisessuale, transgender. E anzi lamentano, con l’irritazione riservata agli scolari testoni, che molti si arrestino davanti all’ermeticità dell’acronimo Lgbt, con il pretesto che non sanno che cosa voglia dire. Mentre sanno benissimo — dicono le Linee guida — che cosa voglia dire Ocse. (Il che, ci sia consentito, è tutto da vedere...). I destinatari delle Linee guida, i bisognosi cioè di essere guidati, sono i giornalisti, vil razza dannata di pigri, imprecisi e confusionari nella migliore, di finti equanimi, di seguaci di falsi esperti, di spregiatori delle associazioni e delle comunità nella peggiore delle ipotesi. Occorre una raddrizzata. Ed è precisamente questo che le Linee guida si propongono di dare. Con il corredo, sulle orme dell’Agenzia Stefani e delle istruzioni diramate nei bei tempi ai giornali, di disposizioni particolareggiate e specifiche. Anche sull’uso delle immagini: quali mettere e quali no, cari giornalisti. Basta esibizionismi e ostentazioni da Gay pride. E attenzione! soprattutto rispetto per «la lavoratrice del sesso trans», ineffabile espressione in cui alcune figure rese familiari dalla cronaca si stagliano su uno sfondo di campi e di officine. E ovunque un mare di fogli, un grande sventolio di codici deontologici, raccomandazioni del Consiglio d’Europa, strategie nazionali, agenzie per i diritti fondamentali, carte, risoluzioni e sentenze di ogni genere. Non che tutto sia da buttare. L’invito alla precisione terminologica, ad esempio, è da seguire e le spiegazioni sono chiare e puntuali. Ma il tono — didattico, insofferente, accusatorio — non è sopportabile.
Molto grande è il debito che tutti abbiamo nei confronti degli omosessuali, donne e uomini. Siamo tutti vissuti e volenti o nolenti abbiamo tutti avuto parte in un mondo che nei loro confronti ha esercitato una violenza intollerabile, esplicita e implicita, materiale e morale. Con cinismo, con cattiveria. Un mondo crudele. Tanto più crudele a casa nostra, in Italia, sotto il peso dei miti mediterranei della virilità aggressiva e della femminilità arresa. Ma quel mondo è finito, si è dissolto con una stupefacente rapidità. Nell’arco di una generazione si è passati dai risolini dietro le spalle a rapporti sereni, rispettosi — cordialmente rispettosi — delle scelte di ognuno. Il che non salda il debito antico. Non è la rapidità del cambiamento a poter costituire una sorta di indulgenza generale. Ma non è l’editto delle Linee guida il modo di pagare quel debito. Non con questo grottesco capovolgimento delle parti per cui i perseguitati di ieri si trasformano non tanto nei persecutori, quanto nei bacchettoni di oggi. C’è nel nostro inconscio nazionale un istinto inquisitorio profondo, un piacere segreto nell’identificarsi con le figure della tradizionale oppressione autoritaria. Che tutti, a parole, diciamo di esecrare: il poliziotto, il professore, il prete. Nelle Linee guida c’è il tono minaccioso del questurino, la matita blu che si avventa sugli strafalcioni, la minuta casistica del confessionale. È triste che gli eredi, i reduci e i beneficiari di un grande movimento di liberazione si ritrovino così inaspriti, così — a loro volta — incattiviti. Come se in una delle pochissime vere incarnazioni di un reale progresso non ci fosse alcuna gioia. Ma solo rancore .