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 2013  dicembre 18 Mercoledì calendario

ASIA ARGENTO – "IL CINEMA È COMUNISMO REALIZZATO MA QUI NON LO PRATICA NESSUNO


Una bambina quasi quarantenne che vive in una casa di bambole alla periferia di Roma, fra libri colorati, strumenti musicali e scarabocchi sulle pareti, in mezzo ad altri bambini che vanno, vengono, giocano, suonano. Mi rendo conto che sto rovinando la reputazione di una delle più celebrate dark lady italiane, un culto dei siti di pettegolezzo, forse omo, forse bisessuale o anche trisessuale e chi più ne ha, più ne metta. Ma così si presenta la “vampira” per l’intervista, un po’ sottovoce perché le creature dormono. Asia Argento ha appena finito di girare un film «per ragazzi», dal titolo ironico e nostalgico, Incompresa, versione femminile del famoso Incompreso di Comencini che fece piangere milioni di bambini e genitori negli anni 60. «Questa è un’incompresa degli anni Ottanta. E’ la storia della scoperta del mondo dalla parte di una bambina che vive la separazione dei genitori».
E’ il suo terzo film, dopo Scarlet Diva del 2000, storia di un’attrice porno, e Ingannevole è il cuore più di ogni cosa del 2004. Perché poi questa pausa di dieci anni? «Il torpore del matrimonio, chissà. La ricerca di una storia forte, che penso di aver trovato. Comunque, tornare alla cinepresa è stato bellissimo e mi ha fatto capire che è questo che voglio. Non reciterò mai più. O forse sì, qualche volta, per soldi. Di fare l’attrice non ho davvero più né voglia né fantasia e forse non l’ho mai avuta».
Curioso, per una che ha cominciato a recitare a 9 anni con Sergio Citti, a 13 era già protagonista di un film della Comencini, a 14 la figlia di Moretti in Palombella Rossa, a 18 ha vinto il David di Donatello…
«Appunto, abbiamo già dato. L’attore è uno strumento puro. La vede questa batteria azzurra? E’ una Ludwig degli anni Sessanta, un gioiello assoluto. Ma se mi metto a suonarla io non ne cavo nulla. Il regista invece è uno stregone ».
Intanto per il ruolo di madre nel suo film ha voluto una Ludwig della recitazione, Charlotte Gainsbourg. Con la quale ha tante cose in comune, genitori famosi e ingombranti, un passato da bambina prodigio, la passione per la musica.
«E il senso dell’umorismo. Lavorare con Charlotte è stata una vera fortuna, non c’era quasi bisogno di parlare. Quando è partita, mia figlia mi ha detto: ma dov’è andata tua sorella?».
Il fascinoso Gabriel Garko è il padre, ma la protagonista è la figlia di nove anni, Giulia Salerno, una bambina prodigio del cinema italiano, già diretta da Ozpetek e Virzì, come lo fu Asia Argento. In che cosa è diverso il lavoro sul set con i bambini?
«Gli attori adulti bisogna prenderli in contropiede, evitare che si accomodino sul mestiere. I bambini al contrario ti prendono in contropiede. Mi piace molto lavorare con loro, li ho ospitati per settimane in casa, ogni weekend, per conoscerli, parlare e giocare con loro. Dev’essere una compensazione. Da bambina sono cresciuta troppo in fretta, sempre in mezzo agli adulti. Da adulta sono sempre in mezzo ai bambini. Recitare in un film a quell’età dev’essere un gioco, ma è anche un lavoro, con regole precise, orari. Questo però i bambini lo capiscono bene, perché per loro nulla è più serio del gioco e delle sue regole ».
E’ una storia drammatica sui traumi della separazione dei genitori, s’immagina autobiografica, ma anche una storia con tratti di allegria, comicità, libertà.
«C’era più libertà negli anni Ottanta, i bambini potevano ancora crescere per strada come gatti. I genitori del mio film sono egoisti ma buffi. La loro separazione, l’esplosione di una famiglia borghese, è un dramma per la bambina, ma anche una liberazione, l’avventura nel mondo oltre le pareti di casa».
Perché ha scelto il titolo Incompresa, la citazione di un film che spopolò quando lei non era ancora nata?
«E’ la definizione perfetta dell’infanzia. Quel sentimento di ingiustizia, appunto di incomprensione, il pensare di non essere ascoltati, capiti, a volte neppure visti dagli adulti. In genere è fondato. Gli adulti non vedono i bambini ».
C’è la famosa scena della cucina in E.T., dove gli adulti non scoprono l’extraterrestre perché non guardano mai in basso.
«Una scena geniale, Spielberg è un grande poeta dell’infanzia. L’altro è Truffaut, la saga di Antoine Doinel».
Sembra avere anche nostalgia di un cinema italiano d’altri tempi, a partire dall’omaggio a Luigi Comencini.
«E’ stato per trent’anni un miracolo artistico. Purtroppo il cinema italiano è finito nel 1975 con Teorema di Pasolini. Poi ogni tanto nascono film perfetti, come Gomorra di Garrone, ma sono eccezioni».
Che cosa manca secondo lei al cinema italiano di oggi, a parte che non nascono sempre geni come De Sica, Rossellini o Fellini?
«Si è perduto il senso del lavoro collettivo, per questo non siamo più grandi. Non soltanto nel cinema. Ma qui in particolare, perché questo è davvero un lavoro collettivo. In fondo il cinema è l’unica forma di comunismo ben realizzato. Per fare grande un film serve in eguale misura il lavoro di tutti, dalla costumista al regista, dagli attori agli operai, ai tecnici del suono. Questo senso della fabbrica collettiva, dove tutti sono importanti, i De Sica, i Fellini, i Pasolini l’avevano, forse anche per formazione politica e ora non esiste più».