Francesco Erbani, la Repubblica 18/12/2013, 18 dicembre 2013
UN MARZIANO A LATINA
[Antonio Pennacchi]
«Ero partito pe’ fa’ un romanzetto de fantascienza». Antonio Pennacchi strizza gli occhi infastidito dal fumo della sigaretta. Il romanzetto, 350 pagine, s’intitola Storia di Karel (Bompiani). È ambientato in un pianeta abbandonato ai limiti della galassia e ripiombato in un’era primordiale senza corrente elettrica. Ma sulla copertina, chi ne abbia familiarità riconosce le architetture anni Trenta di Latina, che sono lo sfondo di Mammut, di Palude, del Fasciocomunista e di Canale Mussolini, il romanzo che nel 2010 a Pennacchi ha fruttato lo Strega, 400mila copie vendute, traduzioni in tante lingue, un pied-à-terre, troppa televisione e una notorietà che gli impone, quando va in giro a presentarlo, di raccogliere anche la richiesta di chi vorrebbe trovare un lavoro per il proprio figlio.
Già dal nome, Colonia, si capisce che il pianeta trascina l’epopea della bonifica e delle città di fondazione. E le agnizioni diventano un gioco girando in macchina con Pennacchi dove un tempo erano palude e malaria. «Qui è Borgo Carso, qui sono nato e ho fatto le elementari. Vede, è cambiato tutto, ora ci sono palazzine e villette postmoderne. Nel romanzo ho inventato Villanueva do Carço». La toponomastica è il fertile terreno del divertimento linguistico: Borgo Sabotino è Sabotnzniegorod, Borgo Piave muta in Pyavelinskij, la Chiesuola in Iglesiña.
«Quello è il mulino del signor Borsato. È diventato Borsât. Ancora non gliel’ho detto che l’ho messo nel romanzo». Ma la fantascienza è comunque un involucro spesso. «È una scommessa che mi porto da ragazzo, quando divoravoi libri della collana Urania. E poi Ray Bradbury. Intendiamoci: a me interessa questa fantascienza, non quella dei mostri metallici alla Robocop».
Però la scommessa l’ha coltivata sotto traccia.
«Neanche tanto. In Mammut il protagonista legge Cronache marziane e quando va all’assemblea della sua fabbrica dice che la rivoluzione non si fa più ora, ma nel futuro, nello spazio. In Palude il federale costruisce un astroporto. E poi nel Fascio-comunista Accio Benassie Serse a Milano incontrano una ragazza che dice di essere marxiana, atea ed esistenzialista e loro pensano che abbia detto marziana, non marxiana».
La fantascienza meglio del racconto epico dei coloni venuti a Latina dal Veneto?
«Ho già assolto il compito assegnatomi dai miei vecchi. E poi urgevano diverse questioni polemiche».
Per esempio?
«Il nodo fra decrescita e sviluppo. Potevo fare un saggio, ma i saggi so’ noiosi. Chi li legge? Il mio primo libro doveva essere un saggio su Croce e la storiografia letteraria?».
Lei si è laureato su Croce.
«Avevo quarant’anni, ero in cassa integrazione. Passavo all’università dodici ore al giorno. Con la tesi in letteratura italiana mi presentai da Carmine Donzelli e gli proposi un libro su Croce. Non mi ritenne all’altezza».
Però pubblicò Mammut e lei cominciò una brillante carriera di scrittore. Torniamo a decrescita e sviluppo.
«È la questione cruciale della sinistra. Quelli che predicano la decrescita non so’ ribelli, so’ reazionari».
Addirittura? Lei è uno sviluppista a tutti i costi?
«Io sono classe operaia».
Ora non più, lei scrive libri.
«Sono un intellettuale, ma non borghese. Se non avessi fatto trent’anni nella Fulgor Cavi non scriverei come scrivo. Io so che l’età dell’oro non esiste. Semmai dovesse esistere non sta nel passato, ma nel futuro».
Bisogna vedere come ci si arriva al futuro. O no? «L’emancipazione è legata allo sviluppo, al produrre. A casa mia la modernità comincia nel 1964 quando mi’ padre compra la lavatrice. E poi detesto il conformismo come fattore primario di integrazione e di edonismo. Per cui chi vuol essere felice dice le cose che dice l’altro».
Non la impressiona una certa pratica distruttiva dello sviluppo?
«Vuole cercare di convincermi?».
Non ci provo nemmeno. Dunque la fantascienza è il veicolo migliore per rendere le sue idee?
«Sì. Quando gli americani annunciarono che avrebbero rinunciato ai programmi spaziali io stetti male».
Scostato leggermente il velo, dietro Storia di Karel, tornano i suoi luoghi di sempre.
«La copertina l’ho voluta io. Sono venuti da Milano, hanno fatto le foto e poi hanno disegnato la piazza di Latina con i portici, gli edifici e anche la fontana con la palla. Il Palazzo K del romanzo è il Palazzo M. M come Mussolini».
I nomi diventano russi, spagnoli. Perché?
«Il pianeta futuro è multietnico. Non è di lingua inglese. Ed è anche multireligioso: padre Jacob, nella cattolicissima Colonia-Latina, prima tutta Dc, poi An, ora non so più, è un pastore protestante».
Il romanzo si popola di una foresta di personaggi che animano tante novelle e ognuna sembra in sé conclusa. È una scelta?
«Raccolgo l’eredità del minimalismo americano».
È talmente nutrita la pattuglia dei suoi personaggi, che alla fine del romanzo lei stila il loro elenco.
«Qualche anno fa, con l’Anonima scrittori, avviammo il progetto di un romanzo collettivo. Io immaginai questo pianeta sperduto ai limiti della galassia e cominciai a popolarlo. Mi accorsi che i personaggi erano del tutto simili a noi. D’altronde l’umanità è questa, anche quella raccontata da Stanislaw Lem in Solaris è così. Dal mondo antico non è cambiato nulla ».
E infatti in Storia di Karel c’è anche il latino. Lunghe citazioni da Tommaso d’Aquino, la Genesi, il Vangelo di Giovanni, persino Ennioe Ausonio.
«È la mia teoria della storia.
L’età classica è il bacino di tutti noi. Discutiamo delle stesse cose, soffriamo per le stesse cose. Molte persone credono che il mondo sia cominciato con loro e invece no. Ma ho messo anche citazioni da Mussolini e da Mao. Il mio passato: prima fascista, poi maoista. Sempre estremista».
La vita a Colonia procede immobile fino a che, perforando un pozzo, non viene fuori il petrolio. E la scena è sconvolta. È così che il pianeta scopre una prospettiva nuova?
«La prima parte è la rappresentazione della stasi, della stagnazione. I giorni sono sempre uguali. Poi arriva il petrolioe tutto cambia, tutto è accelerato. Lo sviluppo è così, accade in un momento. Ci sono le invenzioni, gli animali parlano, anche se coi muli i contadini c’hanno sempre parlato, spunta un cane a sei zampe...».
Come quello dell’Eni?
«Come quello della Supercortemaggiore. Io me ricordo la Supercortemaggiore».