Federico Fubini, la Repubblica 18/12/2013, 18 dicembre 2013
I FORZIERI DEL MONDO
Non lo immagineresti, se non sapessi che è qui. Già attraversando il ponte sulla ferrovia per accedere, questo posto si presenta come eternamente svizzero: uno scialbo magazzino sovrastato da una torretta e un immobile dall’identità incerta fra il sanatorio e la caserma. C’è silenzio e odore di ruggine. Sul piazzale si aggirano operai alla guida dei muletti, nei depositi visibili da fuori restano giusto dei bussolotti di granaglie. I soli oggetti di pregio esposti sono una pompa da vino del 1925 e una bicicletta militare d’epoca che sotto la canna porta una fondina da pistola. Di sicuro non è l’unica misura di sicurezza qui dentro. E l’aria démodé non deve indurre alla sottovalutazione, come sanno gli italiani che negli anni di terremoti finanziari sono venuti qua a tre chilometri oltre il confine. Ci sono probabilmente più beni di valore stipati in questi cento metri quadri che in tutto il resto del Ticino, perché questo è il porto franco di Chiasso. Del resto sta scritto grande sulla torretta in cortile: “Punto franco”, terra di nessuno dal punto di vista fiscale.
Basta chiedere ai tassisti del posto per avere un’idea dell’afflusso proveniente dall’altra parte della frontiera. Chi arriva solo con una valigetta in mano e riparte senza, chi si è fatto venire a prendere a Firenze, chi semplicemente domanda di essere guidato con la sua grossa auto dal bagagliaio palesemente carico verso questo strana isola industriale fra i binari.
La Svizzera del resto è così: unisce tradizione e modernità. Qui tradizione è l’antica abitudine a gestire i porti franchi, temporaneamente esentasse, per materie prime in transito: carburante, derrate alimentari, mangime per il bestiame. La modernità in questo caso invece è usare sempre più spesso gli stessi privilegi dei porti franchi — la discrezione, l’anonimato, l’esenzione tributaria — per farne depositi a tempo indeterminato di merce un po’ diversa: opere d’arte dal valore esponenziale, vini pregiati, gioielli e orologi, ma soprattutto oro, argento, platino o palladio. Niente Iva né prelievo sui redditi da rivalutazione del capitale, per tutto questo. Niente nomi per i loro proprietari.
Da quando i governi europei premono sulle banche svizzere perché rinuncino al segreto dei conti e da quando la credibilità del sistema finanziario globale è in dubbio, i porti franchi sono sempre più affollati. I ricchi d’Italia e d’Europa preferiscono diversificare il patrimonio comprando metalli o beni preziosi. E li depositano in posti come questo di Chiasso, ma ancora di più a Zurigo, Ginevra, ma anche a Lussemburgo o a Singapore, a Shanghai, a Pechino, a Bordeaux o nel Principato di Monaco.
È un’industria rodata, che funziona ormai grazie a una serie di automatismi. Gli italiani vi hanno fatto ricorso nella fase acuta della crisi dell’euro e continuano anche adesso, appoggiandosi su imprese come la Pro Aurum. Quest’ultima ha undici sedi in punti chiave d’Europa fra cui Amburgo, Ostrava in Repubblica Ceca e, strategicamente, Lugano.
Pro Aurum svolge il servizio per la clientela italiana fino a missione compiuta: su ordinativo compra una certa quantità di metallo prezioso — lingotti veri, non i certificati di proprietà di un fondo — e immagazzina tutto nel porto franco di Zurigo. La custodia lì dentro costa ogni anno lo 0,75% del valore dell’oro e l’1,75% dell’argento, del platino o del palladio depositato. Il prelievo sui metalli bianchi risulta più caro, perché a differenza dell’oro su quelli in Svizzera bisognerebbe pagare l’Iva ma grazie al porto franco lo si evita. Comprate, depositate, rivendete tutto dentro quel recinto e non saprete neppure cos’è un’aliquota. Un privilegio del genere ovviamente si paga, purché un punto resti chiaro: l’area protetta di Zurigo non accoglierà la vostra richiesta di asilo fiscale se vi presentate con meno di 80 mila euro in barre o lingotti, dunque non potrete mai spendere meno di 600 euro l’anno sull’oro e 1400 euro sull’argento.
Vero che, almeno in teoria, i porti franchi non sarebbero anonimi. Una recente legge svizzera li obbliga a mantenere un registro di ciò che ospitano e dei titolari dei beni, o almeno dei loro prestanome. Quando però avviate l’operazione, l’addetto vi spiegherà come funziona veramente: un porto franco rivela alle autorità i nomi e i relativi patrimoni solo se c’è la richiesta di un procuratore elvetico, nel caso in cui siate accusati di un reato penale. Altrimenti in quelle aree vige lo stesso segreto a cui la Svizzera sta rinunciando per le banche negli accordi con la Francia, l’Austria, la Gran Bretagna e presto anche con l’Italia.
C’è anche chi sceglie di depositare semplici biglietti di banca nei porti franchi, spesso situati all’interno di aeroporti internazionali in modo da tenerli fuori da ogni frontiera. In questo caso è la banca a noleggiare per il cliente una cassetta di sicurezza nel deposito. Per molti istituti elvetici sta diventando il modo di proteggere l’anonimato del cliente anche dopo aver annunciato solennemente la rinuncia a farlo. Un indizio è nella corsa alle banconote da mille franchi svizzeri: secondo le ultime stime, i biglietti di grande taglio rappresentano ormai il 60% del valore di tutta la moneta circolante nella Confederazione.
Sono solo sospetti, certo, perché chi gestisce un porto franco non spiega mai esattamente cosa fa. I proprietari di quello di Chiasso si limitano a ricordare che agiscono su concessione del governo di Berna, «sottostando alla legge sulle Dogane». Altri professionisti del settore raccontano a mezza bocca che luoghi del genere attirano persone ricche decise a difendersi dal «rischio politico» nei loro Paesi: sommosse di piazza nei Paesi arabi, il crollo del sistema in Grecia, colpi di Stato nell’Africa sub-sahariana. Distinguere tra un mafioso, un cleptocrate e un normale uomo d’affari del resto non è mai stato il mestiere del gestore di un magazzino doganale.
Non che sia un’esclusiva elvetica, a dire il vero. La Francia condanna, ma non si comporta diversamente. Lo scorso luglio per esempio Pierre Moscovici, ministro dell’Economia di Parigi, ha ammonito i francesi sul fatto che il segreto dei conti svizzeri è finito e per chi evade non ci sarà «né pazienza, né amnistia ». Moscovici però non ha ricordato ciò che sta accadendo a Bordeaux. Lì il Bordeaux City Bond, un porto franco a tutti gli effetti, promette anonimato per chi deposita vini preziosi («i nomi dei clienti non compariranno né sulle casse, né sui bancali ») e esenzioni fiscali «per investitori e collezionisti». In altri termini, pur facilitare l’acquisto di vini da parte di ricchi in prevalenza russi e cinesi il governo di Parigi tollera a Bordeaux esattamente il tipo di paradiso fiscale che si batte per eliminare dal resto del mondo.
Impossibile sapere il valore di quel magazzino francese. Un’idea la fornisce però ciò che è appena avvenuto a Ginevra: nel porto franco della città si è fatta una transazione da 150 milioni di euro per un’unica partita di vini. Fanno il resto l’accumulazione di patrimoni sospinta dalla liquidità sprigionata delle banche centrali e la diffidenza di molti investitori verso azioni, bond o derivati. Nel mondo oggi vivono circa 200 mila persone con patrimoni da 30 milioni di dollari e oltre, un aumento del 6% su un anno fa. E per loro le transazioni in opere d’arte diventano sempre di più una forma di investimento alternativo: valevano dieci miliardi l’anno nel ‘92, ma ormai superano i cinquanta. Quest’autunno Deloitte ha portato alcuni grandi clienti in Lussemburgo a vedere il luogo dove sorgerà uno edificio pensato per ospitare tante opere d’arte quante ne contiene un grande museo del mondo, il MoMa di New York o gli Uffizi. Il gruppo ha finito per aggirarsi nell’aeroporto di Findel, che riserva ampio spazio a un porto franco pieno di sofisticate misure di sicurezza: dal riconoscimento biometrico agli ingressi, ai gas inerti per sedare eventuali incendi senza inondare d’acqua i quadri. Gli addetti ai lavori parlano di un “ecosistema per collezionisti” con tanto di “ottimizzazione fiscale”. Ma in linea con lo spirito che aleggia sui nuovi forzieri della Terra, Deloitte ovviamente non commenta.