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 2013  dicembre 18 Mercoledì calendario

LA LISTA DI BERGOGLIO - PUNTATA N. 2

MOLTE CONNIVENZE COL REGIME, MA BERGOGLIO AIUTAVA LE VITTIME -
«La storia della chiesa argentina non è un letto di rose. Men che meno lo è la storia argentina. Rari sono, perciò, co­loro che ne escono candidi. E ancor più le vergini. Van­tando il monopolio sulla ’nazione cattolica’, quella chiesa s’av­vinghiò a lungo allo stato e, dentro allo stato, agli uomini in di­visa. Favorì dapprima il decollo del populismo peronista, salvo combatterlo quando quello pretese di stringerla nelle sue spire totalitarie. E fece poi da ancella ai governi militari successivi alla caduta del peronismo. Così, chiesa e forze armate si ersero a lun­go a bastioni dell’ordine, pronte a tutto pur di impedire il dila­gare delle idee ’estranee’ al ser nacional : a quell’essenza della na­zione di cui si erano proclamate custodi e che non tollerava dis­sensi. Va da sé che su tale sfondo gravi sulle spalle della chiesa ar­gentina un grosso fardello di responsabilità. E che i suoi armadi celino scheletri. Passata la tremenda buriana di quei violenti an­ni, essa per prima ci tornò sopra per chiedere un perdono medi­tato e sofferto». Non è tenero il giudizio del professor Loris Zanatta. Per il docente di Storia dell’America Latina all’Università di Bologna, bisogna però farsi alcune domande, a partire da una realistica ricostruzione del contesto sociale e politico.
«Tutto ciò rese la chiesa connivente col regime di Videla? In par­te sì: di certo lo furono vari vescovi; ancor più lo furono i cap­pellani militari; e fu il peso di quella lunga storia a indurre la chie­sa a non fare denunce pubbliche e a discutere col regime per vie confidenziali. Tale responsabilità collettiva si trasmette però a tut­ti i singoli individui? Ad ogni sacerdote, Bergoglio compreso? Cer­tamente no».
Erano tempi di forti contrasti. Le famiglie erano divise. La po­litica era divisa. «Così lacerata era la chiesa argentina all’e­poca da sembrare un corpo imploso, dove quel che faceva una parte risultava odiosa all’altra. E poi – riprende Zanatta – ci sono i ricordi di chi Bergoglio lo frequentò allora. Dal Nobel Pé­rez Esquivel alla ex ministra Fernández Meijide. Entrambi poco teneri con la chiesa dell’epoca, scagionano l’attuale papa. Non so­lo: ciò che gli si imputa, dicono, ossia l’abbandono di due sacer­doti nelle grinfie del regime, non corrisponde al vero. Carte alla mano, posso a mia volta assicurare che i gesuiti, di cui Bergoglio era provinciale in Argentina, non usarono cautele con Videla per ottenerne la liberazione».
Fu un’epoca di barbarie. Anche quella volta la comunità interna­zionale restò sugli spalti. La dittatura uccise molti innocenti. E tra quanti innocenti non erano, tanti non ebbero la giustizia che si meritavano.
«Anche i guerriglieri montoneros uccisero», ricorda Zanatta. La scelta della via violenta contribuì a causare il golpe militare. I ri­voluzionari credevano che il popolo allora sarebbe insorto, ma si sbagliavano. La grande maggioranza degli argentini, esaspera­ta da anni di violenza e ideologia, non reagì all’ascesa di Videla. Fatto forse poco noto, molti Montoneros erano cattolici. «An­ch’essi avevano i loro bravi cappellani a benedirne le armi. E mol­ti sacerdoti, infervorati dal clima rivoluzionario, fecero espresso voto per la causa montonera: furono militanti politici con l’abi­to talare. Contro di essi – fa notare Zanatta – la dittatura fu fero­ce. Tale era il punto cui erano giunti la lacerazione del paese e del­la chiesa. E tale era l’abisso in cui sprofondò l’Argentina. Ciò che i rivoluzionari di allora, oggi numerosi nelle stanze del potere, non perdonano a Bergoglio, è quello che non hanno mai per­donato alla chiesa: di avere fatto cadere Perón nel lontano 1955 e di avere sfidato oggi a più riprese i governi dei Kirchner. In ciò dimentichi che il peronismo era sì popolare ma anche totalita­rio, e che le critiche mosse al governo argentino dall’arcivescovo di Buenos Aires negli ultimi anni sono il sano prezzo della de­mocrazia ». C’è anche questo dietro agli attacchi sferrati contro Bergoglio. «Con l’ovvio intento di screditarlo catturandolo nella rete del pas­sato. I tanti che puntano il dito contro la pagliuzza nell’occhio altrui senza vedere la trave nel proprio, non avranno però più di­nanzi a sé l’arcivescovo che tanto avevano detestato, bensì il pa­pa. Attaccare senza fondamento il pontefice può dare visibilità, ma anche diventare un boomerang».

QUEI CAPPELLANI AGUZZINI -
L’ergastolo inflitto il 10 marzo 2007 a Christian Von Werni­ch, l’ex cappellano della polizia di Buenos Aires, ha riaperto le polemiche sul ruolo svolto dalla chiesa cattolica negli anni del regime militare (1976-83). Commentando la sentenza, la diocesi di Buenos Aires, alla qua­le apparteneva Von Wernich, a sua volta ha chiesto «perdono e sincero pentimento».
«Preghiamo per lui, affinché Dio lo assista e gli dia la grazia ne­cessaria per comprendere e rispettare il danno recato», era scritto in una nota dell’arcidiocesi. «Il dolore che ci provoca la parteci­pazione di un sacerdote in delitti gravissimi», si leggeva nel co­municato firmato dal cardinale Bergoglio, necessita di una «ri­conciliazione », insistendo su un punto: l’Argentina deve affran­carsi «sia dall’impunità, sia dall’odio, che dal rancore».
«Ci sono stati casi di complicità come quelli di Von Wernich, ma allo stesso tempo molti preti non si sono piegati e hanno com­battuto gli orrori del regime», ricorda Angela Boitano, madre di due figli desaparecidos. La nera contabilità della Guerra sporca (il terrorismo di stato attuato in Argentina sotto il regime dei mi­litari) registra almeno 24 tra sacerdoti e religiosi giustiziati o de­saparecidos, tra i quali, come si vedrà, monsignor Enrique Ange­lelli e il gruppo di padri pallottini assassinati tra il 1976 e il 1977, senza contare i numerosi preti arrestati e interrogati.
Le colpe degli uomini di chiesa furono riassunte nel dramma­tico Nunca más, il rapporto conclusivo – tuttavia non ancora definitivo – pubblicato nel 1984 dalla Comisión nacional so­bre la desaparición de personas (Conadep), detta Comisión Sá­bato dal nome del suo presidente, lo scrittore Ernesto Sábato. Fu voluta dall’appena eletto capo dello stato Raúl Alfonsín, nei primi anni Ottanta, per indagare sui crimini della dittatura. Un intero capitolo è dedicato agli «Atteggiamenti di alcuni membri della chiesa».
«I vescovi della chiesa argentina hanno ripetutamente condan­nato la repressione che questa Commissione ha indagato», pre­mette il testo. «Appena due mesi erano trascorsi dal colpo di Sta­to del 24 marzo 1976, quando la Conferenza episcopale in una Assemblea generale definì ’peccato’ i metodi utilizzati dal regi­me. Nel maggio 1977 la Conferenza episcopale presentò ai mem­bri della giunta militare un documento dai toni su linee simili». Se la posizione appariva sufficientemente chiara, «purtroppo al­cuni singoli membri del clero con la loro presenza, il loro tacere o anche attraverso il coinvolgimento diretto, hanno sostenuto quelle stesse azioni che erano state condannate dalla chiesa nel suo insieme».
«Dall’enorme documentazione (7.830 incartamenti) da noi esaminata si deduce che i diritti umani sono stati violati in forma organica e statale attraverso la repres­sione attuata dalle Forze armate argentine. E violati non solo in modo sporadico, ma sistematico... Come non attribuire ciò a u­na strategia del terrore pianificata al più alto livello?».
Fino alla presentazione del rapporto, la Conadep calcolava che le persone che risultavano scomparse fossero 8.960, a cui per la prima volta vennero aggiunti 24 religiosi «vittime della repres­sione » e un numero ancora imprecisato di laici cattolici deporta­ti clandestinamente e mai più tornati a casa. Ci vorranno anni per arrivare alla stima, considerata assai più attendibile, di alme­no trentamila «risucchiati».
«Si cominciava con il sequestro della vittima da parte di effettivi delle Forze di sicurezza che evitavano di identificarsi. I sequestrati erano quindi portati in uno dei 340 centri di detenzione clande­stini. Questi erano diretti da alti ufficiali delle Forze armate o del­le Forze di sicurezza. I detenuti erano mantenuti in condizioni disumane e sottomessi ad ogni tipo di tormenti e umiliazioni».
«Le prove dell’uso esteso delle torture in questi centri e del sadi­smo dimostrato dagli aguzzini sono terribili. Si sono registrati va­ri casi di bambini e anziani torturati insieme ai loro familiari af­finché questi fornissero le informazioni richieste dai loro aguz­zini ». Le testimonianze che inchiodano membri del clero sono dram­matiche. Julio Alberto Emmed raccontò a testa bassa quale fu il suo ruolo nell’episodio che vedeva coinvolto il cappellano poi condannato all’ergastolo. «Nel 1977 ero agente di polizia nella provincia di Buenos Aires. Alla fine del 1977 o all’inizio del 1978, sono stato chiamato dall’ispettore capo alla presenza del padre Christian Von Wernich [...] In un’altra occasione ci è stato spie­gato che dovevamo prelevare tre sovversivi che erano stati ’pie­gati’ nel corso degli interrogatori e avevano collaborato con le for­ze repressive, in cambio della promessa che sarebbero stati tra­sferiti all’estero». Ai tre malcapitati era stata promessa la libertà. Una trappola. «Sia­mo partiti con tre auto. Padre Christian Von Wernich ci aspetta­va presso la Squadra investigativa a La Plata. Aveva parlato e be­nedetto gli ex sovversivi e aveva organizzato per loro un addio presso la stessa unità. La famiglia (che li attendeva in Brasile) a­veva inviato loro dei fiori. I tre ex sovversivi – due donne e un uo­mo – sono stati autorizzati a tornare liberi, senza manette. Noi eravamo semplicemente le guardie che dovevano portarli verso l’aeroporto e metterli sull’aereo. […] Padre Christian Von Werni­ch era in auto con me».
«Aun certo momento ci sarebbe stata chiesta via radio la nostra posizione. In realtà quello era l’ordine di avvio dell’operazione. Quando abbiamo ricevuto il segnale, ho colpito l’ex prigioniero vicino alla mascella, ma non sono riu­scito a metterlo ko». L’altro agente che era in auto «tirò fuori la pistola». Quando il ragazzo la vide si gettò su di lui, lottando per la vita. «Mi ha costretto a prenderlo per il collo, mentre l’altro col­lega lo picchiava più volte alla testa con la sua arma. […] il ra­gazzo sanguinava copiosamente; sia il sacerdote che noi eravamo bagnati dai suoi schizzi di sangue». Le tre vetture proseguirono lungo una strada secondaria in direzione di un’area boscosa do­ve li attendeva un ufficiale medico. «I tre ex sovversivi, che erano ancora vivi, sono stati gettati sul­l’erba. Il medico ha fatto due iniezioni ciascuno, direttamente nel cuore, con un liquido velenoso rossastro. Due sono morti, ma il medico ha creduto che fossero morti tutti e tre. Poi sono stati ca­ricati su un furgone». Intanto Julio Alberto Emmed e il cappella­no andarono a cambiarsi i vestiti, poi raggiunsero il posto di po­lizia. «Padre Von Wernich vide che l’accaduto mi aveva sconvol­to, e mi disse che quello che avevamo fatto era necessario, era un atto patriottico e Dio sapeva che era per il bene del paese. Que­ste furono le sue parole».
Un altro testimone, davanti alla Comisión Sábato, raccontò che in uno dei centri di detenzione clandestini chiamato La Casita, un giorno, «dopo la prima sessione di torture è venuto da me un prete. In seguito ho saputo che era Christian Von Wernich». A par­lare è Luis Velasco, un prigioniero scampato alla condanna a mor­te. «Una volta ho sentito Von Wernich rispondere a un detenuto che stava implorando di essere risparmiato: ’La vita degli uomi­ni dipende da Dio e dalla vostra collaborazione’».
Adelina de Burgos Di Spalatro era una madre disperata. Voleva conoscere la sorte di suo figlio, Óscar Carlos Lorenzo, arrestato con altri studenti. Monsignor Grasselli, segretario del cappellano militare, «ci ha detto che i giovani erano in un programma di ria­bilitazione in case create per questo scopo, dove erano trattati be­ne […] Ci ha detto che Videla era l’anima caritatevole che ha pen­sato questo piano per evitare la ’perdita’ di persone intelligenti [...] ha detto che il lavoro veniva svolto con psicologi e sociologi, che c’erano squadre di medici per prendersi cura della loro salu­te e che agli irrecuperabili ’qualche anima pia’ avrebbe fatto un’i­niezione per metterli a dormire per sempre». In realtà non è mai esistito alcun centro per la ’riabilitazione’ degli oppositori.
L’elenco dei sacerdoti fortemente sospettati di connivenza con i criminali di stato si allungava ad ogni nuova deposizione. «Nel carcere di Caseros, intorno a marzo del 1980, sono stato sotto­posto a sessioni di tortura da parte del capo dell’ispettorato, ac­compagnato dal capo delle guardie e alla presenza di padre Ca­cabello», ha raccontato Eusebio Héctor Tejada.
E il sindacalista Plutarco Antonio Schaller narra: «Il cappellano Pelanda López mi visitava brevemente la domenica, per fare due chiacchiere nella cella». Durante uno di questi pietosi incontri, il prigioniero lo implorò di intercedere: «Padre, durante gli inter­rogatori mi torturano terribilmente, la prego di fare qualcosa per impedirlo». Il sacerdote rispose: «Figlio mio, ma cosa ti aspetti se non collabori con le autorità?».
In un’altra occasione il sindacalista dice al cappellano: «Non pos­sono continuare a torturarmi in questo modo». Il prete sbotta: «Non hai il diritto di lamentarti», con il tono di chi si è stufato dei piagnistei.

E I VESCOVI? TUTTI COMPLICI -
L’intervento del triumvirato guidato dal dittatore Videla poté apparire, a taluni persino in buona fede, come uno schiaffo necessario a riportare stabilità scongiurando che la situazione precipitasse verso una guerra civile. Ad altri, e qui di buona fede non ve n’era molta, apparve come l’amara medicina da ingurgi­tare in quantità, pur di allontanare lo spettro del «tango-comu­nismo ».
I pavoni di regime con le mostrine in bella vista raccontavano di essere usciti allo scoperto per distruggere un terrorismo non più tollerabile. In realtà si facevano scudo delle buone intenzioni per agguantare il comando di un intero paese con sistematica bru­talità.
La Lettera pastorale collettiva pubblicata dalla Conferenza epi­scopale il 15 maggio 1976 aveva l’intenzione di denunciare un passaggio storico drammatico. Il testo, dovendo mediare tra le po­sizioni, finì per fare il solletico al regime. I generali ebbero la con­ferma che la gerarchia ecclesiastica non era in grado di levare al­ta la propria voce. Per timore. In qualche caso per complicità.
Antonio José Plaza, arcivescovo della città di La Plata, non ha la­sciato un buon ricordo. Fu accusato di essere un attivo collabo­ratore delle forze di repressione. I suoi detrattori gli imputarono di aver cooperato all’arresto di decine di persone, tra le quali un suo giovane nipote, José María Plaza. Nel 1976 venne nomina­to cappellano maggiore della polizia della provincia di Buenos Aires, a quel tempo comandata dal sadico colonnello Ramón Camps, insieme al quale fu visto in numerosi centri di detenzione e tortura.
Nel 1983, due anni dopo la caduta del regime e quattro anni pri­ma della sua morte, monsignor Plaza rilasciò un’intervista al quo­tidiano La Voz. L’opinione dell’arcivescovo si commenta da sé: ’Il giudizio di condanna del governo militare è una rivincita dei sov­versivi. Si sta facendo una Norimberga al contrario, nella quale i criminali stanno giudicando quelli che sconfissero il terrorismo’. Nei primi anni della giunta a Roma arrivavano voci allarmanti. Bergoglio, secondo quanto ci hanno confermato anche i suoi confratelli del Colegio Máximo, nel Centro gesuita di San Miguel, informava regolarmente i suoi superiori della Casa generalizia della Compagnia. E non è fantasioso immaginare che questi a lo­ro volta riportassero molte di quelle notizie alla Segreteria di sta­to della Santa Sede. Papa Paolo VI era molto preoccupato a causa delle informazioni che gli giungevano. Il 20 gennaio 1977, ricevendo in Vaticano mon­signor Plaza, rivolse al presule una domanda che, da sola, espri­meva le ansie del pontefice: «È vero che nel suo paese stanno a­vendo luogo eccessi esecrabili contro persone che, pur non essendo terroristi, si oppongono al nuovo governo militare?». Era evidente che a Roma erano arrivati resoconti piuttosto precisi, mancava so­lo la controfirma dell’episcopato argentino. La replica di Plaza fu sdegnata: «No, niente di tutto questo, san­tità! Si tratta di versioni false e infondate che mettono in circola­zione quelli che sono scappati e si sono rifugiati in Europa».
«Avevo le ore contate. Ero disperato». Il militante uru­guayano Gonzalo Mosca si trovava nei guai a causa del suo credo politico. Nel 1977 Gonzalo aveva 28 anni. A quel tempo i generali già da un pezzo si toglievano di torno i dissidenti con la medesima noncuranza di chi schiaccia le zan­zare. Il giovane Mosca aderiva ai Grupos de acción unificada, una coalizione di movimenti che aveva partecipato nel 1971 alla fon­dazione del «Frente Amplio», la federazione di sinistra che dal 1984, anno in cui l’Uruguay ha riconquistato la democrazia, go­verna ininterrottamente a Montevideo. Gonzalo si è deciso a raccontare la sua storia non appena ha rivi­sto sui canali via satellite l’uomo che lo mise in salvo. Per lui le co­se in patria si erano messe talmente male da dover riparare in Ar­gentina. Del regime dei generali si sapeva ancora poco. Mosca cre­deva di potersi eclissare tra la sterminata periferia di Buenos Aires e la vastità della pampa. Invece, cadde dalla padella nella brace.
A Montevideo erano state schierate cinque unità militari che spa­droneggiavano negli otto centri clandestini di prigionia e nei no­ve cimiteri segreti, destinati fin dal 1971 alla «Juventud Comu­nista ». Una volta raggiunta Buenos Aires, il giovanotto dai capelli arruffati si rifugiò in casa di un amico. La copertura non resse a lungo. «L’esercito argentino è venuto a cercarci quando fortuna­tamente eravamo già scappati dall’appartamento», racconta Mo­sca a trentasei anni di distanza. Il custode dello stabile lo aveva avvertito: «Te matarán (ti uccide­ranno) ». Ma per non finire ammazzato non restava che percor­rere una via. Una strada, per uno come lui, piena di trappole: chie­dere aiuto ai preti. Da un apparecchio pubblico Gonzalo riuscì fortunosamente a telefonare a uno dei suoi fratelli, un gesuita residente in Argentina. Padre Mosca non poteva dare un aiuto immediato, ma sapeva a chi rivolgersi.
Pochi giorni dopo il giovane gesuita raggiunse la capitale argen­tina, dove suo fratello, «il compañero Mosca», contava i minuti che lo separavano da un epilogo già scritto. Aveva un solo dubbio: i militari di Buenos Aires lo avrebbero ammazzato in Argentina o lo avrebbero riaffidato alle meticolose cure dei loro colleghi uruguayani?
Quando padre Mosca contattò quello che era stato il suo in­segnante di filosofia, questi rispose come se dettasse un telegramma. Faceva così ogni volta che la situazione di­ventava seria: «Portami tuo fratello, vedrò di aiutarlo». Padre Ber­goglio arrivò in macchina nel luogo convenuto. Con lui non c’e­ra nessun altro. Le sensazioni di quelle ore, Gonzalo Mosca ce le ha ancora scritte sulla sua faccia da reduce. Sorride, quando ne par­la. Quel giorno, però, sentiva che non avrebbe retto alla paura.
Raccontata oggi, sembra la missione impossibile di uno speri­colato agente segreto. Padre Bergoglio conosceva bene Buenos Aires, dove era nato e viveva da quarant’anni. E conosceva le os­sessioni, le manie, i tic dei militari. «Durante il tragitto mi disse di non guardare fuori dal finestrino. Ad ogni angolo delle stra­de c’erano soldati». La paura che cresce, i polmoni che sembra­no non riuscire a trovare più un anelito d’ossigeno. Cinquanta chilometri che parevano cinquemila. Improvvisi cambi di dire­zione, deviazioni dalle strade principali a quelle secondarie. Gli occhi del gesuita che a intervalli regolari interrogavano gli spec­chietti retrovisori. Neanche le chiese erano più un riparo sicuro. Ai preti traditori, a quelli paurosi, a quelli che apertamente sostenevano il regime, si aggiungevano gli infiltrati. E non era difficile, in quella capi­tale con tanti occhi e troppe orecchie. Le camionette scure erano disseminate dappertutto, ad ogni angolo. Alcune ferme, altre sempre a sgommare, come mute di cani da caccia impegnati fre­neticamente a segnare il territorio. A incutere paura per il solo fatto di essere in movimento. No, neanche ad andare in chiesa ci si poteva fidare. Non capivi più chi entrava per un Pater Ave e Gloria e chi usciva per andare a spifferare.
Buenos Aires è una città perfetta per il controllo del territorio pal­mo a palmo. Come molte metropoli dalla storia piuttosto recente, la capitale federale è un reticolato che ai militari non lascia sor­prese. Gli isolati sono blocchi squadrati, le strade piuttosto am­pie, nessun vicolo buio, nessun dedalo dalle traiettorie impre­vedibili. Impossibile sfuggire ai plotoni. Per chi ci vive, Buenos Aires è un labirinto senza segreti. Lo sanno gli inglesi. E anche gli spagnoli. I primi, ricacciati in mare con le loro guarnigioni nel 1807. I secondi, rispediti sulle caravelle dalla Rivoluzione di Maggio del 1810, quando un popolo in breve diventato nazio­ne decideva di autodeterminarsi.
Eppure, negli anni della Guerra sporca, molti fecero in mo­do di non sentire e non guardare. Anche la chiesa ne sarebbe uscita a pezzi. Con la credibilità da riconquistare e una co­munità da ricostruire. Non erano solo le Ford Falcon riverniciate di verde a terrorizza­re. Quelle, almeno, si facevano riconoscere. Le patotas, le bande di picchiatori e sequestratori in borghese, potevano invece celarsi tra gli automobilisti in coda per il pieno, oppure camuffarsi da manovali, a bordo di camionette scassate che attraversavano i quartieri di periferia.
Finalmente qualcosa di familiare fece smettere Gonzalo di tre­mare. «Mio fratello aveva studiato a San Miguel, dai gesuiti. Ri­conobbi subito il posto». Nella casa della Compagnia, Gonzalo non restò a lungo. «Al massimo saranno stati quattro giorni». A padre Bergoglio bastarono per organizzare la fuga. «Mi presentò come uno studente che voleva partecipare a un breve ritiro spi­rituale». Tutto sommato non era una gran bugia.
Chiunque si trovasse in quella situazione, in quel luogo, con quello spregiudicato gesuita, finiva per domandarsi cosa e chi spin­gessero un sacerdote ancora giovane a rischiare in proprio, per­fino mettendo a repentaglio i suoi confratelli, per salvare quelli che in fondo erano degli sconosciuti dalle idee controverse, per­fino anticlericali. «Mentre lavorava alla soluzione del mio caso, Bergoglio – rammenta Gonzalo Mosca – veniva a trovarmi ogni sera. Parlavamo a lungo. Sapeva che ero molto teso e che non riuscivo a chiudere occhio. Mi consegnò dei romanzi di Borges e anche una radio per far passare il tempo e tenermi informato». Aiutare dissidenti a fuggire non solo era un’operazione piena di rischi. C’era la possibilità concreta di finire direttamente tra le grinfie degli aguzzini. Per questa ragione padre Jorge era riusci­to a costruire una rete d’appoggio in Brasile, in modo da favori­re il successo delle fughe. In realtà nessuno degli appartenenti al «sistema Bergoglio» sapeva di farne parte.
Ciascuno faceva un singolo preciso favore al provinciale ar­gentino: chi procurava un posto letto per qualche notte, chi un passaggio in macchina, chi metteva una buona pa­rola con i funzionari consolari europei, chi procurava i biglietti aerei. Un’organizzazione per compartimenti stagni. L’unico mo­do perché il rischio fosse minimo e le informazioni circolassero il meno possibile, anche tra i gesuiti.
Non era una cautela immotivata. Anni dopo si è riusciti a pro­vare quello che era più di un sospetto. In tutta l’America Latina si erano susseguiti, secondo un ordine plausibilmente non ca­suale, una serie di golpe militari, da quello in Brasile nel 1964 a quello in Argentina nel 1976. Un grande risiko che sarebbe pas­sato alla storia come «Piano Condor», una vasta operazione di repressione organizzata dalle giunte militari del subcontinente per dare la caccia agli oppositori.
Secondo alcuni studi indipendenti, al Piano Condor aderirono, oltre al Cile di Pinochet e all’Argentina di Videla, anche Uruguay, Brasile, Paraguay e Bolivia. Una prima riunione di lavoro dei ser­vizi segreti implicati nel Piano si tenne a Santiago del Cile tra il 25 novembre e il primo dicembre 1975. L’iniziativa fu del fon­datore della polizia segreta del generale Pinochet, Manuel Con­treras, con il tacito consenso degli Stati Uniti che, dopo l’instau­razione del comunismo cubano, intendevano bloccare il conta­gio socialista nel resto del continente.
Un ex generale brasiliano ha ammesso che all’epoca delle ditta­ture esistevano intese fra paesi sudamericani per la cattura e la riconsegna dei dissidenti. Gli oppositori stranieri che si rifugia­vano in Brasile «non li uccidevamo – ha spiegato l’ex generale A­gnaldo Del Nero alla stampa locale – ma l’obiettivo era catturarli e restituirli» alle nazioni di origine. Già capo a San Paolo del Centro di informazioni dello stato maggiore (Cie) negli anni Settanta e Ottanta, Del Nero ha precisato che quando i militari brasiliani ricevevano informazioni su uno straniero sospetto che stava per fare ingresso nel paese, la prassi era arrestarlo e riman­darlo indietro. «E questo è quello che è successo con quei due i­taliani », ha assicurato in riferimento agli italo-argentini Horacio Domingo Campiglia e Lorenzo Vinas, militanti dei Montoneros. Campiglia fu catturato nel marzo 1980 nell’aeroporto Galeão di Rio de Janeiro, proveniente dal Venezuela, e Vinas fu arrestato nel giugno 1980 a Uruguaiana, nello stato di Rio Grande do Sul. Quali fossero i timori di Jorge Mario Bergoglio è facile intuirlo. L’Argentina confinava con paesi sottoposti a una qualche inge­renza militare. Ma il Brasile, per la sua vastità e per la capillare presenza dei gesuiti, si prestava più di altri a offrire riparo ai fug­giaschi. In nessun caso, però, era possibile che ciò avvenisse con voli transnazionali.
Padre Jorge ne era al corrente. Nei giorni in cui Gonzalo Mosca se ne stava rintanato nella stanza offertagli nel Collegio di San Miguel, il capo dei gesuiti argentini mise a punto le tre tappe che avrebbero fatto riguadagnare la libertà al giovane militante.
«Prenderai un aereo da Buenos Aires verso Puerto Iguazú, al con­fine con Brasile e Paraguay. Da lì entrerai in territorio brasilia­no ». Con un biglietto per un volo interno, Mosca avrebbe rag­giunto il Nord della frontiera. L’attraversamento sarebbe dovu­to avvenire clandestinamente, a bordo di una barca. Poi, una vol­ta raggiunto il Brasile, l’uruguayano sarebbe stato preso in cari­co da altri gesuiti che, dopo un breve soggiorno, lo avrebbero mes­so su un volo per l’Europa. Un piano mirabolante.
Perché funzionasse, Gonzalo avrebbe dovuto superare una serie di ostacoli da far tremare i polsi solo a immaginarli: non far in­sospettire gli agenti dell’aerostazione di Buenos Aires, aggirare le guardie di confine argentine e quelle brasiliane, risalire fino a Rio de Janeiro scampando ai posti di blocco, infine ottenere una pre­notazione aerea o un passaggio in nave fino all’Europa, non pri­ma di aver ricevuto il nulla osta dalle autorità consolari del pae­se scelto per l’esilio.
Il giovane uruguayano si fidò. «Padre Jorge non solo mi accom­pagnò in aeroporto, ma venne fino al portellone dell’aereo» e lasciò lo scalo solo quando il velivolo si staccò dalla pista.
Il piano si svolse come aveva previsto il provinciale. L’attraversa­mento del Rio Paraná, non lontano dalle maestose cascate di I­guazú, laddove, risalendo la corrente, si può raggiungere il Bra­sile o il Paraguay. Quindi un nuovo periodo di «formazione spi­rituale » presso una comunità della Compagnia a Rio de Janeiro. Infine, l’agognato atterraggio oltreoceano.
Oggi Gonzalo Mosca è un noto sindacalista. Come allora, sta dal­la parte dei lavoratori uruguayani. Non è quel che si dice un ti­po «casa e chiesa». Almeno fino a quando non ha visto che un prete fuori dal comune, come gli apparve Bergoglio, può diven­tare papa. Nel paese vi furono almeno duecento desaparecidos. Propor­zioni ridotte rispetto allo sterminio degli oppositori nella vicina Argentina. Ma anche in Uruguay migliaia furono le persone per­seguitate e altrettante quelle che fuggirono all’estero. La tecnica delle sparizioni messe in atto a Montevideo fu poi perfezionata dalla giunta Videla.
«Mi sono sempre chiesto – continua a domandarsi il compañero Mo­sca – se Bergoglio fosse consapevole del rischio che si era assunto. Se ci avessero catturati, lo avrebbero accusato di proteggere un e­versivo, mettendo a repentaglio l’intero istituto dei gesuiti».
Anche quella volta le autorità non sospettarono di nulla. «Non so quanti altri si sarebbero comportati allo stesso modo. Non so se qualcuno mai mi avrebbe salvato senza conoscermi affatto».
A chi gli chiede se sia dato una spiegazione, Mosca risponde: «Ho ricevuto un’educazione cattolica dai gesuiti. Mio fratello è un gesuita. Quelli sono i loro valori. Per come li conosco, sono fatti così».

(2 - continua venerdì 20 dicembre)