Niccolò Zancan, La Stampa 18/12/2013, 18 dicembre 2013
I DETENUTI CI LANCIANO DI TUTTO I NOSTRI SUPERIORI NON CI ASCOLTANO
C’è chi si cuce la bocca con il filo di ferro. Chi si taglia i testicoli. Chi ti piange addosso e implora pietà. «E tu devi resistere. Mantenere i nervi saldi. Avere coraggio, fermezza, comprensione. È il nostro mestiere, un lavoro molto duro. Ma certe volte, come si fa?». A Catanzaro un detenuto ha tirato i suoi escrementi in faccia a un agente. A Padova, olio bollente dalle sbarre. Ad Avellino, sputi e minacce: «Creperai anche tu qui dentro, ti infetto con il mio sangue».
Le carceri italiane fanno paura. Sono un mondo angosciante che ribolle di sofferenza esplosiva. Anche quando urli, quando stai male, la tua voce non arriva. Soffrono i detenuti e soffrono i poliziotti, legati dallo stesso quotidiano. Ritmi lenti: chiavi, perquisizioni, ora d’aria, sopravvitto, angherie. È una guerra. Come dimostra il bollettino dei primi sei mesi del 2013: 1880 colluttazioni, 468 ferimenti, 3287 casi di autolesionismo, 545 tentati suicidi, 18 suicidi fra i detenuti e 7 fra le guardie. In carcere si muore. Si muore di carcere.
«L’agente di polizia penitenziaria è un uomo solo», dice Leo Beneduci, il segretario generale dell’Osapp, uno dei sindacati più rappresentativi. «Non vali niente. Non sei niente. Non godi di alcuna considerazione. Purtroppo sei solo l’oggetto passivo di ordini che arrivano dall’alto. Non vedi gli educatori, non vedi i direttori. Sei solo con i carcerati».
Questa solitudine la raccontano tutti così. Come un doppio fronte. Da un lato il rapporto delicatissimo con detenuti troppo numerosi e sempre più violenti: «Dove spesso manca anche il minimo rispetto». Dall’altro il regolamento interno, che ordina e condiziona ogni passo. L’agente di polizia penitenziaria può essere sottoposto a procedimento disciplinare per qualsiasi atteggiamento poco meno che impeccabile: 5 minuti di ritardo, capelli lunghi, barba sfatta, scarpe sporche, divise spiegazzate, mancato saluto, dimenticanze minime. Per 38 mila agenti in servizio in Italia (la pianta organica ne prevederebbe in realtà 45 mila), la media annua dei procedimenti disciplinari supera gli 80 mila casi. Più di due a testa. Significa finire davanti alla commissione, rischiare sanzioni amministrative e punizioni. Molto concretamente, significa vedersi decurtare una parte dello stipendio, che in media è 1440 euro al mese.
Eccolo, il secondo fronte. «Noi in gergo diciamo: “Si montano le biciclette”», spiega Donato Capece, il segretario generale del sindacato Sappe. «Si trova il modo di punirti, quando si vuole e con grande discrezionalità. È un problema enorme, fonte di stress, tensioni, liti. Lo abbiamo sollevato più volte. Dobbiamo rivedere questo sistema sanzionatorio».
Pare che proprio il terrore di incappare in un procedimento disciplinare sia stato all’origine della tragedia di ieri mattina, nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Il capo sentinella ha sparato al responsabile degli atti giudiziari, prima di rivolgere la pistola contro se stesso.
Tutto è distorto, esasperato, oltre i limiti. Persino quelli della legge quadro del 2002 sono disattesi quotidianamente: gli agenti dovrebbero lavorare sei ore al giorno su quattro turni. Ma i turni sono tre. La media italiana di lavoro supera abbondantemente le otto ore. Con picchi come quello del carcere di Altamura, dove 48 agenti hanno accumulato 12 mila ore di straordinario. Hanno mezzi scassati, divise vecchie di quattro anni, in certi casi neppure un bagno interno. Raccontano questo disagio da anni, mentre la guerra continua.
«Chiedevamo un punto di ascolto nelle carceri - spiega Capece - dove l’agente potesse spiegare i suoi problemi e confidarsi. Ma ci hanno dato un numero verde a Roma, l’ennesima dimostrazione di distanza dalla realtà». Sul braccialetto elettronico, tagliano corto: «Una buffonata». Mentre tutti, invariabilmente, ti citano lo stipendio del capo del Dap, Giovanni Tamburrino: 330 mila euro annui. «Ma il vero problema è un’amministrazione sorda, distante, che non sa nulla di quello che avviene realmente», dice Leo Benduci. In carcere non ci si parla. Solo urla e silenzio. Così si torna all’omicidio-suicidio di Torino. «Diranno che è successo per motivi personali - dice Beneduci - ma non è vero. È questa solitudine che uccide. È questa disorganizzazione».