Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 17/12/2013, 17 dicembre 2013
COME SI FA A FAR FUORI I FORCONI?
[Riccardo Ruggeri]
Da giorni l’Italia guarda, muta, i forconi senza averci capito granché. Certo il movimento dei blocchi stradali che sventola i tricolori, che vuole i politici «a casa» senza dire con chi o con cosa li sostituirebbe, non è proprio un monolite e, all’interno, vi si agitano anime diverse, ma forse manca, o è mancata finora, una certa capacità d’osservazione dei fenomeni complessi, ché ancora non abbiamo smesso le lenti novecentesche, della destra e della sinistra, con cui guardavamo tutto.
Riccardo Ruggeri, classe 1934, torinese, una carriera straordinaria in Fiat, dove, come ha scritto Stefano Lorenzetto, «fu il Sergio Marchionne degli anni ’90», facendo con i trattori di Fiat Allis quello che l’ad italocanadese farà con le auto vent’anni dopo, Ruggeri, dicevamo, è l’uomo giusto per parlare del movimento dei presìdi stradali che sotto la Mole ha avuto la sua espressione più forte e matura. Soprattutto perché, prima d’essere stato un grande manager, Ruggeri è stato operaio figlio di operai, cresciuto in una Torino povera e dignitosa e certi rabbie ancestrali di chi protesta sotto la Mole le ha respirate tutte.
Domanda. Ruggeri, questi forconi che sfilano nelle vie della sua Torino, in fondo è un po’ come se li conoscesse da sempre. Per la sua storia particolarissima. Anzi, partiamo da quella, ce la riassuma...
Risposta. Ho avuto una grande fortuna. Sono nato in una famiglia operaia di prima generazione, excontadina, che ha scelto come filosofia di vita di complicarsela: per questo ho adorato i miei nonni e i miei genitori. Eravamo antifascisti «schedati» negli anni ’30, anticomunisti «schedati» dopo il ’45, eravamo contro il Partito d’Azione da quando è nato, lo siamo rimasti anche quando dissero che era morto perché era una bugia, in realtà ha solo cambiato nome e sembianze, è peggiorato, ora è nella versione «affarista-azionista».
D. Vivevate nella Torino popolare...
R. Fino a 40 anni sono vissuto in una specie di «Barrio Flores», in mezzo agli «ultimi» direbbe Bergoglio. Dai 40 ai 60 sono vissuto nel mondo dell’altissima borghesia degli affari, come butler professionista, poi, dimissionato, mi sono riciclato come «partita iva» (il sogno di ogni operaio). Da qualche anno sono finalmente un vecchio signore, ironico, tollerante, orgoglioso di essere rimasto culturalmente un operaio, che si esercita sui giornali, scrive e edita libri, tifa Toro.
D. Ecco ora possiamo arrivare ai forconi...
R. Parlare di quelli che si definiscono «Comitato 9 dicembre» per me è come tornare agli anni ’50, quelli della mia giovinezza, alla Garfagnana, a Torino, alla casa di ringhiera, a Mirafiori, alla curva Maratona. Mi trovo a mio agio, capisco il loro linguaggio, i loro gesti, colgo i loro segnali deboli.
D. E che cosa gliene pare?
R. Nei miei camei giornalieri su ItaliaOggi sostengo alcune teorie che i miei amici più cari (fortunatamente non il Direttore) non apprezzano per nulla, pur mantenendo verso di me stima e amicizia. Una di queste teorie si attanaglia perfettamente al caso «9 Dicembre».
D. Spieghiamola ai lettori...
R. Dopo la caduta del Muro, gli orrendi anni ’90 (per intenderci quelli in cui l’affarismo-azionista ha compiuto nefandezze plurime), il «ridicolo» decennio di Silvio Berlusconi. Biennio Prodi compreso, quindi il disastroso 2011-2012, dove la joint venture culturale «accademici nostrani-burocrati di Bruxelles e Francoforte» ha chiuso nel modo peggiore un ciclo ventennale di sciaguratezze. Certo, eravamo sull’orlo del burrone, loro, con una idiota politica fiscale, ci hanno portato nell’abisso. E in fondo al pozzo (diventato anche morale) siamo tuttora, inutile fingere.
D. Quindi i forconi emergono dallo stesso pozzo?
R. Secondo me, parlo da analista della mutua, non certo da sociologo che non sono, si è andata componendo, per ora in modo random, e all’insaputa di tutti noi, una nuova classe sociale, ancora in nuce, formata da operai, contadini, immigrati, partite iva, professionisti, piccoli-medi imprenditori, che stanno capendo che le strutture intermedie, partiti e sindacati, hanno perso il contatto con la realtà, e non sono più sono in grado di rappresentarli. Vedete come sono nervosi in questi giorni i «borghesi» Beppe Grillo, Enrico Letta, Matteo Renzi, Berlusconi, che hanno fiutato un pericolo sconosciuto?
D. Nervosi perché sarebbe nato un soggetto nuovo?
R. Perché nasce da un «utero fai da te», si tratta una nuova classe di individui di diversa estrazione, che vengono da lontano ma non sanno ancora dove andare, uniti soltanto dal collante della povertà di ritorno (di questa sintesi ne rivendico il copyright, scrivendone da anni). In pratica le politiche sciagurate delle élite al potere, finto liberali, finto globaliste, finto europee, per salvare loro, e i loro privilegi, hanno deciso di far pagare il conto a costoro, e vorrebbero pure che li ringraziassero, o quanto meno che tacessero.
D. Che ne sarà di questo movimento?
R. Potrebbe morire in fasce, sarà aggredito da tutti gli altri poteri. Nella loro fase iniziale sono degli «incubator», possono produrre confusione, peggio violenza, oppure diventare delle «start up politiche» di successo. Io vengo dalla cultura dell’officina, dove i rapporti sociali si decidevano «al chiuso» fra padroni e operai, nell’attuale società della comunicazione i rapporti di forza si trasferiscono «all’aperto». Costoro non sono dei «medici» (come i sindacati classici) ma dei «malati» che si associano.
D. E come avverrà l’aggressione?
R. Le élite lo massacreranno: a) con i loro media, in nome della poca eleganza dei loro comportamenti pubblici, la modestia del loro linguaggio; b) con i loro figli prediletti come i Centri sociali e i NoTav, dove «giocano» alla rivoluzione i loro figli biologici, prima di diventare, crescendo, o élite o black bloc o «sdraiati». Questi si infiltreranno nei cortei, insieme ai delinquenti ultrà di destra.
D. Una demolizione dell’immagine...
R. Certo e in questo le tv stanno dando il peggio di loro. E poi ci saranno i sindacati intubati, furibondi per essere stati scavalcati, esprimeranno tutto il loro disprezzo. Il termine populismo, e tutti i suoi derivati, conosceranno una nuova giovinezza. Un vecchio film già visto. Forse fra qualche tempo non parleremo più di costoro, ma il loro problema sarà nel frattempo peggiorato.
D. Ma perché le élites ce l’hanno tanto con loro?
R. Se tutti questi soloni che liquidano i «nuovi poveri» come populisti, comprassero i prodotti alimentari non negli asettici centri commerciali, ma dai contadini, dai pescatori, dagli allevatori, dagli ambulanti, parlassero con loro, capirebbero i motivi della protesta. Se visitassero certe porzioni delle nostre città, non con l’occhio asettico del sociologo da strapazzo ma con il cervello e il cuore del cittadino privilegiato, capirebbero la mutazione genetica delle nostre periferie: da «banlieue piccolo borghesi» che erano, si sono già trasformate in «banlieue targate «Île-de-France», ma sono avviate a diventare slum, bidonville, favelas, township, scegliete voi la lingua.
D. Conclusioni?
R. È giunta l’ora, non di dire qualcosa di sinistra o di liberale (per favore, basta parlare!), ma di tornare a ragionare da contadini.