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 2013  dicembre 17 Martedì calendario

ABUSO DI POTERE A PECHINO CADONO GLI EX INTOCCABILI


[due pezzi]

Manca solo la conferma pubblica delle autorità cinesi, ma ormai si tratta di un segreto di Pulcinella: Zhou Yongkang, l’ex capo della Sicurezza cinese, è agli arresti domiciliari dall’inizio di dicembre, e il numero di persone disposte a confermare in maniera ufficiosa questo sorprendente sviluppo della campagna anti-corruzione orchestrata dal presidente cinese Xi Jinping è sempre più alto.
Ieri il «New York Times» ha pubblicato un articolo che cita una serie di fonti che ripetono quello che ormai da settimane diventa sempre più sicuro: uno degli uomini fino a poco tempo fa più potenti della Cina è stato dapprima al centro di un’inchiesta e ora è agli arresti domiciliari, insieme alla moglie, Jia Xiaoye, sorvegliato a vista da guardie che probabilmente fino a poco tempo fa prendevano ordini da lui.
Nato nel 1942 a Wuxi, vicino a Shanghai, Zhou Yongkang diventa dunque il membro di grado più alto del Politburo, attivo o in pensione, ad essere sottoposto un’inchiesta giudiziaria e, soprattutto, a venire arrestato, spezzando un tabù rimasto inviolato dal 1949, da quando il Partito Comunista Cinese giunse al potere dopo la guerra civile contro i Nazionalisti di Chiang Kai-shek.
La parabola di Zhou lo vede uomo di Partito fin dal 1964, ma la sua carriera inizia a decollare con la Rivoluzione Culturale, subito dopo che Zhou consegue la laurea all’Istituto del Petrolio di Pechino, diventando ingegnere esperto in perizie geofisiche ed esplorazioni. Lavora con i gruppi petrolieri cinesi fin dagli inizi, con posizioni sempre più importanti, poi, nel 1996, diventa il direttore generale della China National Petroleum Corporation, uno dei colossi cinesi del petrolio. Solo nel 2003 passa dall’essere «uomo del petrolio» a ministro della Sicurezza pubblica. Sono gli anni in cui la Cina si prepara a ospitare i Giochi Olimpici di Pechino e sotto Zhou l’apparato di sicurezza si espande e acquisisce sempre maggiori poteri: nulla di imprevisto deve succedere mentre gli occhi del mondo sono rivolti verso la Cina, e Zhou allarga le capacità di controllo e di sorveglianza. Sotto di lui, la polizia acquisisce sempre maggiori poteri e una crescente indipendenza dal Partito stesso, grazie anche alla presenza di Zhou al Politburo, il cuore del potere cinese.
Con l’arrivo di Xi Jinping però, e della sua volontà di un ritorno ad un potere maggiormente accentrato nelle mani del Presidente, ecco che un dipartimento di sicurezza troppo forte e tracotante non è più accettabile: Xi elimina dal Politburo il posto del capo della Sicurezza, ma questo gesto ancora non sembra diretto in modo specifico contro Zhou, lasciato andare in pensione senza problemi apparenti. Poi, invece, dopo che l’ex segretario di partito di Chongqing, Bo Xilai, viene condannato all’ergastolo l’estate scorsa, ecco che piano piano cominciano a correre voci incontrollate sul conto di Zhou Yongkang stesso: sotto inchiesta per corruzione e abuso di potere, proprio come Bo. E nella mega inchiesta sarebbero coinvolti anche il figlio, Zhou Bin, e Jiang Jiemin, il successore di Zhou alla Cnpc, la China National Petroleum Corporation, ora rimosso dalla Commissione di supervisione e amministrazione delle aziende di Stato (che comprendono ovviamente anche la Cnpc e gli altri gruppi petroliferi cinesi).
Chi credeva che il processo a Bo Xilai fosse stato il momento più difficile nella vita politica cinese, dovrà ricredersi: se Zhou si troverà a dover rispondere delle proprie azioni in un’aula di tribunale il futuro potrebbe riservare nuovi momenti di alta drammaticità.

Ilaria Maria Sala



LA TAGLIOLA ANTI-CORROTTI DI XI PER SALVARE IL PARTITO UNICO–

Quando arriva la domanda su Bo Xilai, «l’untore» del sistema, Cui Shaopeng prima sorride a denti stretti, poi, didascalico, sentenzia: «Il caso Bo Xilai è stato per la prima volta studiato qui, poi quando abbiamo capito che i capi d’imputazione contro di lui erano più gravi, abbiamo passato l’intero faldone alla magistratura». Il finale è storia nota, il potente «ras» di Chongqing è stato condannato (in agosto) all’ergastolo per corruzione e abuso di potere; addio sogni di entrare nel Politburo per contrastare Xi Jinping - suo rivale diventato presidente - e addio alla libertà. E il suo è solo il più eclatante dei casi usciti dalla pancia della Cina di recente.
I destini dei potenti cinesi e degli sherpa del partito (in Cina sono 85 milioni gli iscritti al Cpc) si giocano in un palazzone austero e anonimo nel cuore di Pechino. Per finire sul libro nero del partito basta una telefonata (al 12388), un sms, una segnalazione via e-mail, un fax o una lettera di denuncia. Il funzionario che ci accompagna nella visita fra stanze linde e dipendenti sorridenti non smette di elencare le cinque modalità con cui la gente denuncia i leader comunisti ad ogni livello. I cittadini (non valgono le denunce anonime, così ci dicono) indicano l’usurpatore, poi si apre l’inchiesta; quindi «l’imputato» è chiamato a presentare la sua difesa (sui metodi con cui questo può contestare l’accusa però i dettagli scarseggiano) e se colpevole di aver arraffato qualche soldo, di aver chiesto un favore per far avanzare una pratica, di aver intascato una bustarella, di abuso di potere, insomma se reo di aver infangato il buon nome del Partito, finisce espulso. O peggio, anche se già essere cacciati con ignominia dal Cpc equivale a una sentenza di «morte». Politica ed economica almeno.
Di questa macchina inquisitrice, una sorta di commissione etica o di controllo sul partito (ufficialmente Commissione Centrale per le ispezioni disciplinari, Ccdi), Cui Shaopeng è il volto pubblico. Snocciola numeri con rapidità e precisione. Nel 2012 160mila persone sono state punite a ogni livello, più 12,5% rispetto al 2011. Bo Xilai guida la lista dei 960 casi gravi, quelli spediti di fronte alla magistratura. Quest’anno il furore - almeno a livello centrale - è meno forte: 17mila casi aperti fino a settembre, 3700 punizioni. Ma l’elenco dei potenti finiti nelle maglie della giustizia interna sotto il corso di Xi è lunghissimo e di primissimo piano: da Bo Xilai a Zhou Yongkang, passando per Xu Suning, vice segretario comunista a Nanchino. E poi centinaia di piccoli ufficiali, volti del Cpc a livello locale. Silurati in nome di quella trasparenza e intransigenza che Pechino ritiene fondamentale per garantire al Partito il potere. Xi Jinping ha rafforzato le strutture di controllo, ha dato risalto - e continua a enfatizzare soprattutto sui media - i risultati della lotta alla corruzione. Che è diventata quasi la vetrina della Cina.
Qualcuno bolla questa caccia al corrotto (soprattutto quando sono pesci grossi) come faida fra fazioni rivali nel Cpc, altri come una sorta di istinto di conservazione. Più il partito si mostra trasparente, puro, integro eticamente più potrà fare il bene della Cina, è il leitmotiv che analisti, professori, funzionari di partito (ci mancherebbe) ripetono. È la democrazia in salsa cinese. Che non ammette elezioni e nessun «Dio» fuori dal Partito affidandogli invece poteri taumaturgici, ma che consente a tutti i cittadini di prendere la cornetta e additare il capo locale del partito come corrotto.
Shen Ke Quin, boss del partito a Nanchino abbonda nell’uso della parola democrazia. «Se la gente ci dice che qualcosa non funziona, noi ci adoperiamo per risolvere il problema, questa è una socialdemocrazia». Suona un po’ strano. Ma la Cina di Xi Jinping pare ci creda veramente.
Alberto Simoni