Natalia Aspesi, la Repubblica 17/12/2013, 17 dicembre 2013
PHILOMENA – DONNE PRIGIONIERE NELLE STATO LIBERO D’IRLANDA
Philomena è il vero gran film di Natale, per quel pubblico che vuole ridere ma anche commuoversi senza sentirsi scemo. Trama in questo senso sospetta: una mamma e il suo piccino vengono separati da suore malvagie e rapaci e si cercano poi per tutta la vita in due diversi continenti senza incontrarsi mai. Una simile nera sorte richiamerebbe un po’ Carolina Invernizio se il regista non fosse il sapiente Stephen Frears, se la mamma ormai anziana non fosse Judi Dench, che con il suo bel viso autentico di ottantenne dalle mille rughe e dallo sguardo azzurro, illumina una storia che è soap proprio perché realmente accaduta, straordinaria negli intrecci del destino e nella forza invincibile dell’amore. Candidato a tre Golden Globe (film, attrice, sceneggiatura) alla Mostra di Venezia piacque talmente sia alla critica che al pubblico, da privarla dispettosamente del Leone d’oro, riconosciuto solo alla sceneggiatura.
Il film s’ispira all’inchiesta romanzata del giornalista Martin Sixsmith, un tempo responsabile della comunicazione per il governo Blair (il libro esce in Italia da Piemme, con una sezione fotografica, col titolo del film), che, disoccupato, era alla ricerca di una storia strappalacrime per efferati tabloid. La trova e la ricostruisce, ed è una delle tante che sconvolsero vite innocenti di tempi ora cancellati, quando le donne erano nulla: erano i primi anni 50, nello Stato Libero d’Irlanda, quando anche il primo ministro Eamon de Valera non aveva il coraggio di frenare lo strapotere della Chiesa cattolica, che si riteneva autorizzata ad essere la sola a imperare sulla vita grama e la morte frequente delle ragazze-madri, imperdonabili peccatrici carnali abbandonate dai loro seduttori e dalla famiglia, rinchiuse come schiave in prigioni-lavanderie: più di quattromila bambini furono strappati a queste madri, muniti di passaporto dal governo e mandati negli Stati Uniti per essere adottati da buone famiglie cattoliche o da celebrità come la diva Jane Russell, la bruna pettona di Gli uomini preferiscono le bionde girato nel 1953.
Una di quelle madri si chiama Philomena Lee, uno di quei bambini si chiamava Anthony. Una volta privata del suo bambino, lei diventa infermiera a Londra, si sposa e ha altri figli. Lui, adottato col nome di Michael Hess, cresce negli agi a St. Louis nel Missouri. E se il libro racconta soprattutto la vita di Anthony-Michael, il film, pur rispettando il senso della storia e la verità dei personaggi, inventa che sia quella donnetta irlandese che crede nei romanzi rosa e che è la meravigliosa Judi Dench, timida, curiosa, dolente, entusiasta, coraggiosa, ad andare nel 2004 col giornalista (Steve Coogan, bravo ma spesso troppo stupefatto) negli Stati Uniti per ritrovare un Anthony di cui nulla sa, ormai cinquantenne, e, teme lei, forse obeso, forse barbone, forse drogato. Il viaggio la esalta, scopre un mondo sconosciuto, il volo in business, il cioccolatino sul letto dell’albergo, e, a Washington, la gigantesca statua bianca di Lincoln. La prima notizia è fatale; Michael è morto nell’agosto del 1995, a 43 anni; ma è proprio da quella tragica rivelazione che inizia la vera ricerca per scoprire chi era quel figlio sconosciuto. Così dalle fotografie, dai colloqui, dai video, che il film ci mostra, si materializza anche per lo spettatore un Mike bello, intelligente, grande avvocato dalla doppia vita: quella pubblica di consigliere legale per il partito Repubblicano ai tempi di Reagan e di Bush Senior, quella privata di omosessuale, che il suo partito, omofobo, non avrebbe mai accettato. Quando, con imbarazzo, un’amica di Michael mostra foto di lui felice abbracciato a un bel ragazzo, Philomena non si scompone, «Anche da bambino era molto sensibile, e poi quella foto in salopette!». È l’ultimo compagno di Michael, Peter Nilson, che lo ha assistito nell’agonia dell’Aids, a rivelare a Philomena come anche lui non l’avesse mai dimenticata, e fossero andati insieme a cercare sue notizie nel convento irlandese dove le nuove giovani eleganti suore adesso dai modi gentili ma di antica perfidia, hanno sempre negato un aiuto.
Oggi Philomena, ottantenne, va a pregare sulla tomba di quel figlio perduto e troppo tardi ritrovato, nel giardino del convento-prigione irlandese dove era nato e dove lui aveva voluto a tutti i costi essere sepolto.