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 2013  dicembre 17 Martedì calendario

A VOLTE MI CHIEDO SE NE VALGA LA PENA MA LE MINACCE NON MI FERMERANNO


La prima volta che ha indossato la sua toga di magistrato era notte. Quella del 24 maggio 1992. Ancora uditore giudiziario, faceva il picchetto d’onore fra le colonne di marmo del Tribunale di Palermo. Stava lì, in piedi davanti alle bare di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo.
Sono passati più di vent’anni da quando abbiamo conosciuto Nino Di Matteo, immobile in mezzo all’immenso atrio illuminato solo dai ceri. Ce la ricordiamo tutti quella notte. Il buio, il silenzio, il dolore, la paura. Poi l’altra bomba, l’altro picchetto d’onore del 19 luglio. «A volte mi chiedo se è giusto andare avanti, per me e per la mia famiglia. Razionalmente penso che non ne valga la pena, ma poi un impasto di sentimenti si fa largo e mi trascina a una sola risposta: ne vale la pena, è giusto così», dice lui che è appena arrivato nella sua stanza al secondo piano del Palazzo di giustizia, la terza a destra dopo una porta blindata.
È mattino presto quando il pubblico ministero minacciato di morte da Totò Riina e minacciato da lettere anonime con lo stemma della «Repubblica italiana » si china su una scrivania coperta di fascicoli, verbali di interrogatorio, note riservate. Le carte della trattativa su Stato e mafia. Non quelle del processo che si sta celebrando contro l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino e gli ufficiali dell’Arma insieme ai boss, le altre, quelle dell’indagine che continua oltre il processo. Sono le carte che lo costringono a vivere come un sepolto vivo, dentro un mondo protetto da tutto e da tutti. «Diciamo che è una coincidenza: l’ordine di morte partito da Riina e tutti quegli anonimi sono arrivati in sincronia quando, anche dopo il rinvio a giudizio degli imputati, con i miei colleghi abbiamo deciso di non fermarci con l’inchiesta», racconta questo magistrato palermitano che è sotto scorta dal 1993 («La mafia di Gela, volevamo farmi fuori»), ha 51 anni, moglie e due figli, padre avvocato e nonno giudice. Se l’aspettava un’esistenza difficile. Solleva lo sguardo dalle carte, esita un attimo: «Sapevo a cosa andavo incontro quando ho cominciato a fare il magistrato, il lavoro che volevo fare: il pm, non il giudice. A Palermo avevano già ucciso molti colleghi, c’era già stato Capaci, via D’Amelio, ma non credevo che si potessero ripresentare momenti così».
Mai era accaduto — neanche ai tempi del maxi processo a Cosa Nostra — che un pm non potesse andare in udienza «per motivi di sicurezza», come è capitato la settimana scorsa. Volevano portarcelo con un blindato a Milano, tipo quelli che il nostro esercito usa in scenari di guerra come l’Afghanistan e l’Irak. Troppo pericoloso spostarsi. Troppo pericoloso restare anche a Palermo per Di Matteo.
Non va più a nuotare alle 7 del mattino. Non va più alla “Favorita”, alle partite. Ogni tanto i suoi «angeli custodi» lo trascinano in qualche caserma — sempre diversa — dove si fa mezz’ora di jogging. Ha sempre dietro uomini armati.
Un confidente ha appena svelato «che è arrivato l’esplosivo » anche per lui. Era accaduto nell’estate del 1992, quando qualcun altro aveva annunciato il tritolo per Paolo Borsellino. Tutto come vent’anni fa? «No, c’è una differenza importante: allora c’era solo il silenzio intorno a Paolo, oggi ci sono tantissimi italiani che stanno dalla nostra parte, semmai stridono certi silenzi istituzionali se confrontati alla solidarietà dei cittadini, delle persone senza nome che mi scrivono».
I silenzi dei Palazzi. Tanti. Il capo dei capi della mafia vuole ucciderlo e, al di là dei comunicati ufficiali e di circostanza — a parte il comitato di ordine pubblico e sicurezza convocato dal ministro Alfano a Palermo e le sue dichiarazioni di ieri — Roma sembra lontana, indifferente alla sorte di un magistrato stretto in una morsa, fra il delirio del capo dei Corleonesi e invisibili personaggi scivolati fra le pieghe delle indagini della trattativa. Perfino la ministra di Grazia e Giustizia Cancellieri, l’amica dei Ligresti, ha mostrato un certo distacco. Prima ha detto che la sua amministrazione era all’oscuro di ogni piano omicida di Riina (eppure gli operativi del Dap, di solito sono anche troppo informati), poi ha «espresso vicinanza ai magistrati » mentre qualcuno in giro per l’Italia già metteva in giro le solite voci infami. Non è vero niente, quali minacce ha avuto mai Di Matteo? L’avevano fatto con Falcone, all’Addaura.
Ma questa volta c’è la faccia di Totò Riina ripresa da un telecamera, c’è la sua voce registrata da un microfono. «Se mi torcono un capello, questa volta c’è la prova», riflette il pm che per anni ha indagato sulle uccisioni di Falcone, Borsellino, Chinnici, Saetta. Per anni ha cercato faticosamente indizi — con pentiti, riscontri, indagini — su Riina mandante di quei delitti e adesso, paradosso, si ritrova la «prova » del suo annunciato omicidio sotto gli occhi, già pronta.
«È lì, nel video», dice. E comincia a ricordare quando l’inferno è diventato ancora più inferno. Settembre 2012, dodici fogli con lo stemma della Repubblica italiana e l’intestazione “Protocollo fantasma” lasciati nella buca delle lettere di casa sua. Un anonimo avvertiva che i pm della trattativa erano spiati, poi un’escalation di messaggi ritenuti da chi indaga provenienti da apparati.
Come ci si sente tra due fuochi? Nino Di Matteo non risponde e scompare dentro un’altra porta blindata.