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 2013  dicembre 17 Martedì calendario

UN SEGGIO 15MILA EURO (A RATE) I VOTI MAFIOSI AL TEMPO DELLA CRISI


Che i rapporti fra mafia e politica in Sicilia siano consolidati è un dato di fatto storicamente appurato. Prova ne sia che nel 1976 la commissione parlamentare antimafia dovette ammettere che la stessa liberazione dell’Isola, nel 1943, avvenne con la determinante opera dei boss: in quell’occasione, attraverso il capomafia italo-americano Lucky Luciano, venne stretto un patto d’acciaio fra i «padrini» e le forze statunitensi, per cacciare i fascisti e insediare sindaci «amici».
A distanza di settant’anni, dopo le inchieste che nei decenni passati hanno mandato in cella boss e politici, il patto criminale ha cambiato aspetto, assumendo i contorni della classica compravendita di voti. E così ecco spuntar fuori il tariffario preelettorale, vademecum non scritto per aspiranti amministratori che da Cosa Nostra vogliono ottenere sostegno concreto. Pratica, questa, testimoniata anche dall’ultima inchiesta in ordine di tempo, quella che ha mandato dietro le sbarre familiari e affiliati del superboss latitante di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro.

PRATICA BIPARTISAN
Dalle intercettazioni è infatti emerso che nell’area di competenza del boss stesso un voto costava 50 euro, mentre un pacchetto di 500 voti si sarebbe potuto acquistare - con lo sconto - a «soli» 15 mila euro. Intercettando le conversazioni del capomafia di Campobello di Mazara Nicolò Polizzi con il proprio figlio Luca, gli inquirenti hanno anche scoperto che si sarebbe potuto pagare in due comode rate, com’è uso anche nei negozi di elettrodomestici: 2 mila euro prima del voto e i restanti 13 mila in caso di successo elettorale. (Evidentemente la crisi non si fa sentire così tanto al mercato dei voti: all’inizio dell’anno un servizio del quotidiano tedesco Die Welt aveva raccontato come, nel quartiere palermitano di Brancaccio, un voto singolo costasse 20 euro).
In ogni caso, a beneficiare dei voti della mafia sarebbero stati - sempre secondo gli investigatori - Angelina Tamburello, candidata per «Forza del Sud» di Gianfranco Miccichè alle Comunali 2011, e Doriana Licata, candidata per l’Mpa di Raffaele Lombardo alle Regionali 2012. In quest’ultimo caso le tariffe sarebbero state molto più salate: in caso di elezione, la spesa si sarebbe aggirata attorno ai 200 mila euro. Ma la Licata non venne eletta.
Paese che vai prezzo che trovi. E così nel maggio scorso Giuseppe Scrivano - ex sindaco di Alimena, in provincia di Palermo, anch’egli candidato alle Regionali in una lista di centrodestra - è stato accusato di aver pagato in cambio di voti 3.000 euro, poi fatturati come «spese per feste elettorali». Pratica bipartisan, manco a dirlo: a novembre l’ex senatore Pd Nino Papania e il suo segretario Massimiliano Ciccia sono stati indagati per voto di scambio prelativo alle Comunali del 2012 ad Alcamo, in provincia di Trapani. Stavolta niente soldi, ma la richiesta da parte di due malavitosi di essere assunti, dopo l’elezione, nella locale società di raccolta rifiuti. L’accusa di assunzioni di boss in cambio di voti era stata al centro anche della vicenda che, nel 2005, aveva visto indagati l’allora deputato regionale dell’Udc Onofrio Fratello e il consigliere comunale di Marsala, Vincenzo Laudicina.

QUANTO PESA
Nel 2002 era stata la volta dell’ex senatore socialista Pietro Pizzo, a cui venne contestato il versamento di 80 milioni di vecchie lire alla famiglia mafiosa di Marsala in cambio di mille voti per il figlio, candidato alla Regione: reato, poi archiviato nel 2012. E sempre nel 2002 a finire nelle maglie della giustizia era stato Alfonso Lo Zito, candidato alla Camera per l’Ulivo: l’accusa era di avere promesso alla cosca mafiosa di Porto Empedocle 25 milioni di lire.
Resta da capire quanto effettivamente pesi il voto pilotato dalla mafia sui risultati elettorali. Non poco, perlomeno in passato: solo un paio d’anni fa, in Commissione antimafia, il procuratore di Palermo Francesco Messineo riferì che 94 famiglie, disposte su 29 mandamenti, spostavano 300 mila voti. Il pentito Antonino Calderone calcolò che solo su Catania la sua “famiglia” disponeva di 180mila voti sicuri. E l’altro pentito Enzo Brusca disse che nel suo paese, San Giuseppe Jato, era in grado di manovrarne almeno un migliaio.