Nicola Campogrande, Corriere della Sera - La Lettura 15/12/2013, 15 dicembre 2013
IL MIO SOGNO È RITROVARE I SUONI SVANITI DI ROMA ANTICA
La prima biblioteca immaginaria nella quale sarebbe bello imbattersi dovrebbe contenere musica dell’antica Roma. Perché, di quella, non sappiamo nulla, e così vaghiamo tra meraviglie archeologiche e capolavori letterari senza avere idea del suono nel quale quella civiltà era immersa. E dire che cantavano, e suonavano, gli antichi romani: la musica segnava il ritmo dei lavori agricoli, riempiva commedie e tragedie, faceva parte della liturgia delle diverse religioni, era materia per concerti nei quali si esibivano le enormi masse corali e strumentali delle quali parla Seneca nelle sue lettere. Ma all’epoca la musica, quando non era usa-e-getta, si tramandava oralmente, e i trattati che ne parlano illustrano teorie dalle quali ben poco si può ricavare per le nostre orecchie. Così un’intera civiltà per noi rimane muta, e infatti quando vogliamo giocare alla colonna sonora per gladiatori o banchetti luculliani ci tocca inventare di sana pianta. Sarebbe poi meraviglioso tirar fuori dagli scaffali di qualche archivio, se davvero le conservassero, una copia delle prime Sonate per violino e pianoforte di Johannes Brahms. Erano tre, e il compositore — un incorreggibile perfezionista — le distrusse per lasciare al mondo soltanto le tre successive, scritte in età decisamente matura (per la Prima aveva quarantasei anni). Mica per altro: una scrittura esatta e levigata in musica ha il suo senso, e si può anche ritenere che sia un valore in sé; ma la freschezza, il carattere esplorativo, acerbo, delle partiture giovanili di Brahms sopravvissute ai fiammiferi dell’autocritica sono talmente vitali e appassionanti che, all’idea di aver smarrito per sempre chissà quale bendidio, ci si mangia le mani. E, ancora, sarebbe fantastico ritrovare il Concerto per violino e orchestra che Claude Debussy stava scrivendo per il grande virtuoso belga Eugène Ysaÿe: aveva in mente una soluzione timbrica molto speciale (solo archi nel primo movimento, flauti, corni, trombe e arpe nel secondo, per poi riunire il tutto nel movimento finale) e lo avrebbe intitolato Scènes au Crépuscule . Ma compositore e violinista litigarono in modo irrimediabile e Debussy decise di cassare il progetto, riversando parte del materiale — ma non la linea del violino solo — in quelli che sarebbero diventati i Trois Nocturnes . Pagina orchestrale splendida, intendiamoci, e diletto sommo per ascoltatori e interpreti: ma che impasto sarebbe sortito da quell’idea strumentale così ardita, con trombe e arpe a dialogare con il solista? E quanto pagherebbero i violinisti, oggi, per avere nel loro repertorio un vero Concerto firmato da Debussy? E poi, nella biblioteca musicale dei miei sogni, dovrebbe comparire un manoscritto segreto di Anton Webern, una partitura magari nata tra mille ansie intellettuali, nei suoi ultimi anni di vita, schiacciata tra il piacere di far musica e i dettami del modernismo, che ne smentisca il pensiero rettilineo, austero, oltranzista. Mi piacerebbe ritrovare un bel quartetto, o una sonata per violoncello, o magari anche solo un piccolo pezzo per pianoforte ma composto a orecchio, con gioia, senza fare appello agli schemi della serialità sui quali sono cresciute le superfetazioni delle vecchie avanguardie; un manoscritto capace di ricordare, con il proprio esempio, che, da Bach a John Cage, è nel tradimento della regola che si cela la magia dell’arte. Suonerebbe come un «liberi tutti» per i compositori che (oggi per lo più in Italia, in Francia e in Germania) ancora infliggono a sé e al prossimo sofferenze inutili per onorare a modo loro la memoria delle avanguardie di settant’anni fa; e sarebbe forse il regalo più bello che un faldone nascosto in fondo a uno scaffale polveroso potrebbe fare alla musica del presente.