Marcello Sorgi, La Stampa 15/12/2013, 15 dicembre 2013
GUTTUSO SCRITTORE COMUNISTA IN LIBERA USCITA
È strano che un pittore scriva molto. Nel caso di Renato Guttuso, di cui Bompiani ha appena pubblicato nei «Classici» gli Scritti di una vita (a cura di Marco Carapezza, pp. 1942, € 50), è ancora più strano, se solo si riflette sulla qualità e sulla quantità di una produzione pittorica praticamente infinita: Guttuso dipingeva sempre, dal mattino alla sera, alternando disegni, ritratti, quadri, che prendevano corpo nello studio romano, a grandi opere che realizzava d’estate, con l’ausilio di un carrello meccanico, nello studio appositamente dedicato di Velate.
Così che è sorprendente scoprire, grazie alla pubblicazione di questo volume, che invece si dedicava alla scrittura con fatica e passione, avvolto per lunghe ore «in ampie volute di fumo» delle sue sigarette e «in un forte aroma di caffè», come lo ricorda il figlio adottivo Fabio Carapezza Guttuso. Scriveva prevalentemente d’arte, ma anche di cultura e politica. Non disdegnava le polemiche. E a un certo punto aveva perfino pensato di fondare una rivista, La Medusa, dal nome del famoso quadro di Géricault dedicato al naufragio di una nave e alle tragedie dei sopravvissuti, allegoria ottocentesca della Francia alla deriva. Ne furono preparati due numeri completi, ma né Feltrinelli né Einaudi vollero pubblicarla.
La ragione di una smania così forte, di una «nevrosi di ragione», come Sciascia definiva la passione creativa, la spiega in un’approfondita prefazione l’italianista Massimo Onofri, partendo dal complicato rapporto di Guttuso tra il suo essere artista e la sua militanza comunista, quel senso del «dovere» che lo costringerà per molta parte della sua vita, fino a oltre metà degli Anni Settanta, negli stretti confini di una pittura realista, e spesso di un realismo socialista. Una sorta di «cilicio», così lo definisce Onofri, da cui appunto il pittore siciliano riuscirà a spogliarsi con la parola scritta molto prima di farlo con il tratto del pennello sulla tela.
In questa chiave, gli Scritti rappresentano il diario di una sofferta liberazione interiore. Si tratti delle critiche, e poi della riscoperta di Picasso o dell’esaltazione di De Chirico, che gli vale un attacco frontale del critico comunista Giulio Carlo Argan. Oppure di prender parte al dibattito pubblico senza le cautele e i giri di parole che si richiederebbero a un artista-simbolo di partito. Ciò che farà dire al grande storico della letteratura Natalino Sapegno che Guttuso sarebbe diventato un intellettuale anche se non fosse stato pittore.
Solo per fare qualche esempio, c’è la collaborazione al Politecnico, rivista poco ortodossa che incorrerà negli strali della severa politica culturale del Pci, e la difesa del suo eretico direttore Vittorini. Ancora, il progressivo allontanamento dall’ideologia si legge, oltre che nei quadri più recenti, La piscina, La spiaggia, La visita della sera, nel rifiuto di prendere la guida di un movimento realista. Onofri azzarda la possibilità che il punto di svolta nella vita di Guttuso possa essere rappresentato già dai Funerali di Togliatti, dipinto quasi un decennio dopo la morte del segretario comunista, in cui gli obblighi di propaganda si accompagnano a molte libere uscite, la scelta dei numerosi personaggi non necessariamente di partito che accompagnano il feretro del leader (144 volti in bianco e nero, tra i quali Neruda, Quasimodo, Sartre, Vittorini, Eduardo De Filippo), la rappresentazione rugosa di Lenin e Stalin, la stessa testa del Migliore, una testa quasi decapitata, austera ma non fino al punto che ci si aspetterebbe, e circondata di fiori colorati.
Ma se è dai dettagli che bisogna desumere l’inizio di un ripensamento critico di Guttuso sulla propria militanza e il riconoscimento di una contraddizione con la propria vocazione artistica, questi stessi emergono più chiaramente dagli Scritti e in particolare da una polemica con Pier Paolo Pasolini, fin dal 1963. Lo spunto è un premio Viareggio assegnato a Guido Piovene, scrittore con un passato fascista mai nascosto, e anzi rivendicato in più di un’occasione. Pasolini lo attacca, Guttuso, a sorpresa, lo difende. E all’amico Pier Paolo, in quegli anni vittima di emarginazione perché omosessuale, obietta: proprio tu, che conosci l’ingiustizia della discriminazione, vai a discriminare Piovene? La polemica si sviluppa sull’Unità, con una serie di articoli assai pesanti da cui trapela il risentimento di Pasolini. Eppure, diversamente da quello che avverrà vent’anni dopo con Sciascia, Guttuso e il poeta torneranno amici. Pasolini scriverà la poesia Il tuo rosso, Guttuso, dedicata al pittore. E Guttuso farà un’apparizione nel film di Pasolini La rabbia.
In qualche modo però anche il famoso scontro nato alla fine dei Settanta a proposito di certe confidenze sul terrorismo di Berlinguer, rivelate da Sciascia e rinnegate da Guttuso, dopo una colazione riservata in cui entrambi erano presenti e durante la quale il leader del Pci avrebbe fatto delle rivelazioni su campi di addestramento per terroristi in Cecoslovacchia, costituisce una conferma del tormentato rapporto, soprattutto negli ultimi tempi, tra il pittore e il suo partito. Chiamato a testimoniare da tutti e due, Guttuso scelse di schierarsi con Berlinguer e smentire Sciascia, che gli rispose pubblicamente, accusandolo di non aver saputo scegliere tra la verità e la menzogna e di aver preferito, in conclusione, l’omertà. Finì così l’amicizia tra due dei maggiori intellettuali siciliani, che solo qualche anno prima erano entrati insieme, in rappresentanza della società civile, nel consiglio comunale di Palermo. Fu anche una lezione, per Guttuso. E forse l’ultima volta che dovette piegarsi alla disciplina di partito.