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 2013  dicembre 15 Domenica calendario

LORENZA TRUCCHI


Dovendo trovare una definizione attraverso l’arte - un mondo che ha percorso in lungo e largo - il pensiero corre alla Wunderkammer, quel luogo, di promiscua eccellenza estetica, in cui convivono le collezioni più diverse e bizzarre. Nei racconti di Lorenza Trucchi, nell’accumulo di storie e di personaggi, affiora una collezionista della vita. La curva del naso, l’occhio sparvierato, la magrezza del colibrì la renderebbero un’autorevole pretendente a occupare, in quello spazio di meraviglie, un posto di insolita bellezza. «Non sono mai stata bella», confessa con l’agguerrito candore della novantenne, «ma interessante come può e sa esserlo una donna che ha passato buona parte della sua lunga esistenza felicemente sola».

Sediamo nel bel salotto romano di questa borghese che ancora ha la voglia di sbattersi per mostre e gallerie con la curiosità del neofita. Dice che il suo presenzialismo ormai si limita a qualche uscita: gli artisti, aggiunge, non sono più quelli di una volta. E volge lo sguardo alla parete dove un bellissimo Dubuffet fa mostra della propria potenza informale: «Vede, vorrei donare quel quadro alla Gnam di Roma. Poi penso che lo stato di indigenza morale, culturale e materiale in cui versano le istituzioni pubbliche mi fa esitare».
Niente è più come prima?
«Al netto di una frase che ho sentito spesso anch’io da giovane, mi ritrovo a pronunciarla come la più onesta delle ovvietà. Dopotutto, cosa c’è di male nel farla propria se le persone che vedo oggi, le storie che sento in giro, sono così lontane da quelle che ho vissuto nel mio passato?».
Un passato agiato?
«Senza assilli economici. Mio padre medico a Montecarlo, mia madre possidente. Venivamo dalla Liguria di Ponente, sul confine di Bordighera. Sono stata una privilegiata. Laurea in legge. Pietro Sette, finita la guerra, mi propose di entrare nel suo studio. Così anche Gino Sotis, grande civilista. Ma non era per me. Volevo scrivere e occuparmi di arte».
Molta gavetta, immagino.
«Neanche tanta. Allora bastava non essere proprio degli analfabeti. Avevo conosciuto Giambattista Vicari che dirigeva Il Caffè, una rivista letteraria su cui scrivevano in parecchi: Calvino, Sciascia, Ceronetti. Vicari mi presentò a Giancarlo Vigorelli che dirigeva
Il Momento, giornale su cui teneva una rubrica d’arte. Nel frattempo avevo fatto delle inchiestine sul Mezzogiorno».
Di che genere?
«Tra il pittoresco e il sociale. Viaggiavo con una giardinetta, rifinita in legno, per le strade polverose del Sud. Arrivai perfino a San Giovanni Rotondo, stavano finendo di costruire l’ospedale. C’era stato un dono in denaro nientemeno che da Fiorello La Guardia. Giunsi sulla piazza e vidi una grande agitazione. Un frate barbuto si dimenava, sgridando alcune donne: era Padre Pio».
E lei cosa fece?
«Niente, la scena era surreale, mi spiegarono che gli capitava a volte di prendersela con i credenti. Ma, insomma, non era quella la mia strada. Per tornare a Vicari, lui disse a Vigorelli che aveva bisogno di un aiuto: una persona giovane che girasse per mostre. Cominciai così a occuparmi d’arte. Il primo articolo lo scrissi al ritorno da Saint-Paul de Vence, dove Matisse, già malato e accudito da una suora, decorava i vetri di una piccola cappella. Mi colpì, perché l’artista era sdraiato e si aiutava con una lunga canna».
Che anno era?
«Doveva essere il 1950 o 51. Un po’ di tempo dopo Vigorelli fondò il settimanale Il Giovedì, ci scrivevano Pasolini, Bertolucci, Berto. Voleva essere una specie di anti Mondo, non ebbe fortuna. Andò meglio con L’Europa letteraria, bimestrale al quale collaborarono le migliori firme internazionali: Achmatova, Brecht, Aragon, Blixen. Mi occupavo d’arte. Come pure cominciai a occuparmene sulla Fiera letteraria, diretta da Vincenzo Cardarelli, ma in realtà nelle mani di Diego Fabbri. Nel frattempo era nata una storia d’amore con Vigorelli».

Si dice che lei fosse l’amante segreta di Jean Dubuffet.
«Ma neanche per sogno. Conobbi Dubuffet a Parigi, grazie alla mediazione di Renato Barilli. Andammo insieme al primo appuntamento. Ci venne incontro un vecchietto che esordì con qualche banalità. Mi sentivo spiazzata. Barilli deferente. In seguito, avrebbe scritto un lavoro importante su di lui».
E lei?
«Mi appassionai all’opera di questo genio. E quando Argan, che voleva per l’Einaudi dedicargli una monografia, chiese al maestro chi avrebbe potuto scrivere l’introduzione, sorprendentemente Dubuffet indicò me. Fu così che in seguito nacque il mio libro su di lui e che arrivò in finale al Viareggio, Era il 1964, l’anno in cui Ripellino vinse con Il trucco e l’anima. Tra noi non ci fu mai niente. Come dimostrano le tante lettere che ci siamo scritte e che presto pubblicherò».
Innocenti?
«Assolutamente. L’uomo era difficile e anticonformista. Dico sempre che in Francia lui e Jean Fautrier hanno dato vita all’informale; come in America avevano fatto Pollock e de Kooning e da noi Fontana e Burri».
Burri fu un’altra sua passione.
«Travolgente. Ricordo che alla prima sua mostra, nel gennaio del 1952, alla galleria l’Obelisco a Roma - galleria meravigliosa diretta da Gasparo del Corso e dalla moglie Irene Brin - provai uno shock notevole davanti alle sue muffe e ai suoi neri. Chiesi chi era questo artista sconosciuto. La Brin mi rispose che era un medico che aveva fatto la guerra in Africa, e che era stato recluso, come Giuseppe Berto, in un campo di concentramento nel Texas».
Poi lo ha incontrato?
«Certamente. Il nostro primo contatto fu una telefonata che gli feci. Gli dissi, esitante, chi ero. Lui sciolse l’imbarazzo con una grande risata virile. Era un uomo appartato e attraente. Aveva un solo grande amico nel mondo dell’arte: Afro. Per il resto amava parlare di calcio con i suoi amici contadini. Non ho mai capito perché Toti Scialoja, intelligentissimo e scrittore straordinario, ma, secondo me, pessimo pittore, lo detestasse».
Forse per la diversità culturale?
«Non lo so, ogni grande artista crea imbarazzo, fastidio, divide, e solo dopo morto verrà celebrato. Pensi a Bacon, che fu l’altra mia bruciante passione».
Come ne scoprì la grandezza?
«Bacon approdò in Italia grazie a Mario Tazzoli che per primo fece una mostra nella sua galleria torinese. Poi passò a Milano e quindi sbarcò all’Obelisco di Roma. Bacon era interessato a Roma. Qui, tra l’altro, alla Galleria Doria, vide il ritratto di Innocenzo X, di Velázquez, che gli sarebbe servito per la serie dei suoi quadri sui papi urlanti».
E il vostro rapporto come è nato?
«Ero stregata dai suoi lavori. La sua pittura sovvertiva tutte le regole del gioco. Volevo scrivere di lui, qualcosa di approfondito. Andai a Londra a conoscerlo, grazie all’interessamento di Valerie Beston che dirigeva la Marlborough e che lui chiamava "mia zia"».
Perché?
«A quanto pare tra i compiti di Valerie c’era anche quello di andare a raccattarlo nei pub completamente ubriaco. Bacon era un uomo amabile, gentile. Molto inglese. Con un fondo autodistruttivo, forse dovuto alla sofferta e prevaricante omosessualità. A Londra cenammo assieme.
Mi parlò di Guttuso che aveva conosciuto in casa di Balthus. Lo considerava un pittore scadente. Gli interessava, invece, il cinema di Pasolini e di Bertolucci. Ho conosciuto Man Ray, Rauschenberg, Rothko, che poi si sarebbe suicidato con un coltello da cucina. Ma nessuno, dico nessuno, aveva la profonda ossessività di Bacon».
Immagino che tutta questa gente l’ha incontrata grazie a Roma.
«Sì, negli anni Cinquanta la città era qualcosa di formidabile. Al confronto gli anni Sessanta saranno più prevedibili, anche se più celebrati».
Com’erano i protagonisti della critica di allora?
«Si davano parecchio da fare. Ma vorrei dire una cosa prima di accennare a loro. L’Italia del Novecento, sotto il profilo della pittura, è stata qualcosa di straordinario. Spesso lo dimentichiamo. Abbiamo avuto il Futurismo, la metafisica di De Chirico, senza di lui non ci sarebbe stato il Surrealismo».
Ha conosciuto De Chirico?
«Chi non lo ha conosciuto. Soffriva di terribili coliti. Secondo me i mal di pancia gli venivano dai pensieri che gli suscitava la pittura contemporanea».
Si accennava ai signori dell’arte. Argan?
«L’uomo più intelligente che abbia conosciuto nel mondo dell’arte. Poco occhio e tutto cervello».
Cesare Brandi?
«Sapeva vedere i quadri, anche se prese qualche cantonata. Era un uomo coltissimo. Influenzato dai suoi piaceri».
Palma Bucarelli?
«Una signora ariosissima. Impiegò undici anni per salutarmi. Ma è stata fondamentale per l’arte. Si diceva che fosse Argan a scriverle i testi. Non è vero. Era sposata con Paolo Monelli. Un uomo ossessionato dalla gelosia. Si mormorava di storie che lei aveva avuto con numerosi protagonisti del mondo culturale. Giravano strafottenti filastrocche. Lepidezze di altri tempi, di un mondo diverso, dove lei è stata una regina vera».
Come lo fu Irene Brin.
«Irene inventò uno stile. Fu Ansaldo, direttore del Mattino di Napoli, a scoprirla. Longanesi la consacrò, cambiandole il nome da Marilù Rossi a Irene Brin. Poi l’aiutò a creare un modo nuovo di raccontare la mondanità.
Quando mi incontrava diceva: carissima, prima di tutto una piccola operazione al naso, poi molte perle e un bel divorzio. Era stupefacente. Anche fisicamente. Aveva delle tette sproporzionate. Sembrava una matrona. Gasparo, il marito, l’adorava. Ma a lui piacevano i maschi. Lei non se ne preoccupò. Le bastava lo spazio della mondanità che si contendeva con Camilla Cederna. E poi c’era Colette».
Intende la moglie di Indro Montanelli?
«Sì, proprio lei. Debbo a questa donna elegantissima, non bella, ma intelligente - si diceva fosse figlia del Re d’Inghilterra - la mia conoscenza con Montanelli e la collaborazione con lui al Giornale. Quella bella stagione per me finì con lui».
Anche l’arte è finita?
«Lì è più complicato. Condivido l’affermazione di Jean Clair che i tempi brevi della finanza snaturano quelli lunghi dell’arte. E che questa è diventata un gioco borsistico. Ma non saprei dire alla lunga cosa accadrà. A un certo punto avremo una svolta, un salto.
Sono dell’idea che rari individui vedono in rari momenti ciò che noi non vedremo mai in tutta la vita. È il segreto della grande arte. Come si fa a dire che è morta? Oggi però mi annoia».
Com’è una sua giornata?
«A gennaio compirò 92 anni. Dico spesso che a 90 dovrebbero toglierci di mezzo. Lo scorso 16 luglio, in piena notte, ho sognato di essere morta e di volare. Strano, no? Poi mi sono svegliata: sudata, con un forte dolore al petto e il respiro mozzato. Era un infarto. Mi hanno portato in ambulanza al Santo Spirito. Pensavo: che ci faccio io qui? Mi hanno salvata e ora eccomi davanti a lei a dirle della mia vita».
Come è stata?
«Mi sono divertita nonostante o, forse, grazie ai miei impegni. Certe volte penso che avrei voluto fare di più».
Ha figli?
«Non ne ho mai voluti. E poi: con chi avrei dovuto farli?».
Non lo so.
«Ho avuto un grande amore: Giancarlo Vigorelli, come mi pare di averle detto. Prima di lui c’era stato Guido Strazza, un ingegnere che volle fare il pittore. Divenne bravo, ma è stato soprattutto un grande incisore. Ancora adesso ogni tanto ci sentiamo. Ma la stella polare, per 15 anni, fu Vigorelli».
E poi si spense?
«Niente di insolito. Si stufò di me. Ero noiosa, temo. Ma fu il modo in cui mi liquidò a essere grottesco. Accadde una domenica. Il suo autista mi consegnò una lettera di 35 pagine.
Aveva impiegato tre mesi per scriverla. Con un tono untuoso e ipocrita rievocava il suo mondo di catto-comunista e tutto ciò che politicamente e spiritualmente io non ero riuscito a dargli. Tre mesi per scrivere quelle corbellerie. Senza il coraggio di venire a dirle personalmente. Fu un congedo devastante. Meglio: offensivo. Soffrii in modo pazzesco e giurai a me stessa che con gli uomini avevo chiuso».
Ha sposato l’arte.
«Ma sì. In un certo senso è stato così. Per oltre sessant’anni ho fatto il critico militante. Ho insegnato in Accademia. Ma la cosa più eccitante è stata essere ogni volta dentro la luce del presente. Molte cose riviste oggi sono difformi da come le ho immaginate e raccontate. Errori, sviste, giudizi affrettati. Ma anche parecchie intuizioni. E se mi guardo indietro mi rivedo bambina sulla riviera di Ponente con il vento che spazza la faccia e i capelli. Ed è un privilegio riuscire ancora a emozionarmi a quel ricordo».