Marco Mostallino, Lettera43 16/12/2013, 16 dicembre 2013
IL CLAN DELLA E-MONNEZZA
Un cellulare, un tablet, un computer. Strumenti di lavoro e regali di Natale. Che però, alla fine, diventano carcasse inquinanti da smaltire. Insomma, semplici rifiuti. E per di più pericolosi, non solo per il gran numero di metalli pesanti e sostanze chimiche che contengono, ma anche perché rappresentano carichi preziosi per le ecomafie che si fanno carico di prelevarli e smaltirli in Paesi poveri dove succede un po’ di tutto. E dove quel che resta ancora di valore viene recuperato e reimmesso nel mercato mondiale, spesso con passaggi illeciti e inquinanti, dannosi per l’ambiente e la salute.
L’Italia (secondo il rapporto delle Nazioni Unite Solving the E-Waste Problem Initiative) ha prodotto nel 2012 circa 1,1 milioni di tonnellate di tecno-spazzatura, frutto della circolazione di 1,4 milioni di tonnellate di apparecchi elettronici immessi nel nostro mercato, con una media di 17,8 chili di rifiuti informatici per abitante.
Una quantità importante, stimata attorno alle 100 mila tonnellate di questi rifiuti (un decimo del totale), viene gestita illegalmente. Quel che resta di pc e telefonini finisce il più delle volte in Nigeria, dove esistono ’laboratori’ più o meno clandestini che si fanno carico di trattare e rivendere i materiali ancora utili per nuove produzioni. Sul fronte delle indagini è spesso il Corpo forestale a intervenire, con i suoi agenti specializzati in questo tipo di inchieste.
Nel 2010 una delle operazioni più importanti su questo fronte ha rivelato proprio il passaggio dall’Italia alla Nigeria dei residui informatici: il porto di partenza dei vecchi pc e computer era Genova, dove i container giungevano soprattutto dal Piemonte e venivano imbarcati illegalmente con la dicitura «masserizie».
Ma, più spesso, nei carichi tossici diretti in Africa viene apposta la bolla di trasporto «beneficenza»: un crimine che aggiunge il sapore della beffa ai traffici di materiali tossici e allo sfruttamento schiavistico delle popolazioni locali. Per ricostruire questi passaggi, alcune organizzazioni ambientaliste britanniche hanno inserito di nascosto alcuni dispositivi Gps all’interno dei container sospetti, riuscendo così a seguire passo dopo passo il percorso criminale dei computer dismessi.
Dal 1997 l’Italia, grazie al decreto dell’allora ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, si è dotata di norme sempre più stringenti per lo smaltimento degli apparecchi elettronici. Ma consegnare pc, telefonini e frigoriferi (il traffico riguarda anche questi elettrodomestici) negli appositi centri costa, e costa caro.
Così come in altri settori produttori e raccoglitori talvolta preferiscono vendere questi scarti tossici a organizzazioni criminali che poi portano tutto in Africa, Asia e in genere in Paesi del Terzo Mondo. In Nigeria per recuperarli dai cadaveri di pc e telefonini basta semplicemente bruciare i rifiuti. La plastica si scioglie ed è possibile così estrarre i metalli preziosi per rivenderli agli stessi produttori che a loro volta li utilizzano per fabbricare nuovi apparecchi.
Ma le sostanze tossiche restano là, sul terreno, a inquinare terre e fiumi e ad avvelenare chi lavora per quattro soldi in queste attività ad altissimo rischio.
La stima degli investigatori è che circa un pc o telefonino su 10 dall’Italia prende la via dei Paesi poveri, dove la criminalità locale utilizza le persone più povere e disperate in questa nuova forma di schiavitù, assai lucrosa per chi gestisce l’affare ma spesso mortale per chi è costretto a mettere le mani ogni giorno in questa sorta di Terra dei Fuochi africana.