Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 16 Lunedì calendario

OLTRE IL GIARDINO – ["ARTIGLIO" BEFERA UNA FAMA ESAGERATA PIÙ CHE MALVAGIO SPESSO SBAGLIA LA MIRA]


«C’è bisogno di dire una parola forte e certa, di affermare che l’evasione e l’elusione fiscale non sono compatibili con la nostra economia e con nessun sistema veramente democratico». Di chi è questa «parola forte e certa»?
L’attribuzione è alquanto problematica, visto che sentiamo pronunciarla, da quando portavamo i pantaloni corti, almeno dai tempi di Luigi Preti, ministro delle Finanze socialdemocratico di quasi mezzo secolo fa e, via via, è stata «must» di ogni ministro che si è succeduto dal dopoguerra ad oggi. Ma, sfidando l’ovvietà, la formula magica è stata ripetuta l’altro giorno da Attilio Befera, presidente dell’Agenzia delle Entrate e di Equitalia, il quale ha aggiunto che «il rafforzamento della lotta contro la frode fiscale e l’evasione non è solo una questione di entrate, ma anche di equità sociale». Tuttavia, per sua ammissione, «gli sforzi compiuti dalle agenzie fiscali» non riescono a ridurre la fantasmagorica cifra di 130 miliardi l’anno di evasione, calcolati dalla Corte dei conti. Befera, pur benemerito e vittima dell’incivile campagna di odio contro Equitalia (salvo i non pochi casi di ottusità burocratica), non è un passante, come i ministri che vanno e vengono, ma dal lontano 1997 è dirigente generale delle Finanze e da sette anni è al vertice degli organismi operativi che dovrebbero, per l’appunto, ridurre l’immensa area dell’evasione. Perché non ci riescono? L’antico mantra dice che nessuno può riuscirci finché non ci sia una reale «volontà politica», invece che il solito diluvio di parole. Ma l’alibi fa un po’ acqua. E la fama di Befera, detto «Artiglio» rischia di apparire un po’ esagerata.
E’ vero che in materia fiscale il legislatore sembra un cappellaio matto, che è riuscito negli anni a creare un fisco indecente per un paese occidentale, un labirinto paradossale che provoca crisi di nervi dei contribuenti e dei commercialisti, mentre altrove pagare le tasse è un chiaro e semplice appuntamento burocratico.
Ma, al di là delle colpe della politica, l’impressione è che qualcosa non funzioni a dovere neanche nelle agenzie fiscali, molto attive nel lavoro più semplice, nel pizzicare piccole evasioni e errori formali, ma quasi impotenti nei confronti delle grandi frodi, che ormai mettono a rischio ogni patto sociale.
Non siamo tra quelli che criticano i blitz nei giorni di Natale e Capodanno alla caccia di mancati scontrini. Ma non è con queste operazioni mediatiche che si affronta efficacemente un fenomeno di dimensioni che non hanno l’eguale nelle democrazie occidentali. Il problema è sì la politica, ma — bisogna dirlo — anche l’amministrazione. I guai non sono dovuti soltanto all’instabilità e all’incapacità della politica, ma a un deficit dell’intera classe dirigente. A cominciare dagli alti gradi della pubblica amministrazione, che — se volessero — rispetto alla politica hanno vaste praterie per operare con maggiore determinazione e incisività, evitando il sospetto avanzato dal Censis nel suo ultimo rapporto sulla situazione sociale del paese secondo cui contribuiscono a «drammatizzare la crisi per gestire la crisi».
a.statera@repubblica.it