Giuseppe Galasso, Corriere della Sera 16/12/2013, 16 dicembre 2013
LE MILLE E UNA NOTTE DI NAPOLI
L’ attesa di un’edizione del napoletano Cunto de li cunti di Giovan Battista Basile, che fosse attendibile e ben commentata nel testo e nelle sue implicazioni, era viva da più di un secolo. Da quando, cioè, Benedetto Croce, nel 1891, pubblicò il primo volume di un’edizione, che però si arrestò lì. Il Croce provvide poi a una traduzione completa in italiano, apparsa nel 1925, e fu questa la via per la quale Basile fu più conosciuto in Italia.
La traduzione di Croce ebbe molto successo, e fu ripubblicata una trentina di anni dopo, e per la terza volta nel 2001. In seguito, quando di Croce si presero a discutere anche le virgole e i punti e virgole, fu criticata. Il suo italiano fu imputato di avere, per così dire, svirilizzato l’icastico e rotondo napoletano del Basile e di averne dato una versione di bene educato e polito, ma anche meno pregnante e incisivo toscano di buona società. Aveva sostituito una parlata, come si direbbe in napoletano, «chiatta chiatta», nei suoi toni sia delicati che forti, con un tenue recitar cantando.
Non entro nel merito della questione. Non pare, però, che finora le versioni alternative a quella di Croce (di Roberto De Simone, di Michele Rak, di Ruggero Guarini) abbiano vinto la prova, anche se quelle di De Simone e di Guarini manifestano un apprezzabile sforzo di riportare tale quale la napoletanità del testo nel loro, per questa ragione, fatalmente molto «costruito» italiano.
Anche Enrico Malato — come scrive nell’ampia introduzione alla nuova, desiderata edizione attendibile e commentata del Cunto uscita per l’editrice Salerno a cura, e con grande merito, di Carolina Stromboli — ritiene che quella di Croce resti «la migliore traduzione italiana». Questa è, però, spesso una discussione stucchevole. Più interessante è notare che, come nel 1891 la parziale edizione crociana fu contemporanea di traduzioni complete in tedesco e in inglese, così la nuova edizione Salerno si inserisce in un significativo ritorno internazionale di Basile, che in una dozzina di anni (1995-2007) ne ha visto traduzioni in spagnolo, francese, tedesco e inglese.
Ma che cos’è che rende tanto duratura l’attrazione di un’opera, di cui fu forte l’eco già al suo tempo? Si tratta di racconti, apparsi, postumi, nel 1634-1636, nel secolo che si chiuse con le favole celeberrime del Perrault (fra le quali Cappuccetto Rosso , Cenerentola , La bella addormentata nel bosco ), vive ancor oggi con la loro fresca ingenuità, benché l’ingenuità non sia quanta parrebbe, vista l’arte consumata dell’autore nel creare il clima di favola. I racconti del Basile sono favolosi in quanto, più che al favoloso, si rivolgono a ciò che è straordinario, meraviglioso, sorprendente. Il dialetto stesso appare scelto, rispetto all’italiano, quasi per rispondere meglio alla suggestione di ciò che è portentoso e stupefacente e alla propensione verso di esso.
Cospicuo esempio ne è il racconto, che figura, quasi modello e programma, nella deliziosa «introduzione agli intrattenimenti de’ peccerille» (dei bambini). Zoza, principessa triste, non riesce mai a ridere, ma vede un giorno litigare una vecchia e un ragazzo, e quando la vecchia fa un gesto sconcio e ridicolo, finalmente ride. Ma la vecchia le lancia una fattura, per cui avrà pace solo quando riuscirà a sposare un certo principe; e di qui una serie di avventure del tutto fuori del comune. Perciò le cinque giornate del Cunto (detto perciò anche Pentamerone ) richiamarono temi e intrecci più nella tradizione delle Mille e una notte che in quella dei novellieri italiani, tendenti al realismo.
Evidente è, su questa strada, la dimensione barocca del Cunto , che Croce definisce «il più bel racconto barocco d’Italia». Questa qualificazione porta, però, fuori strada se serve a un puro inquadramento ambientale, insufficiente per un tale autore. «I suoi personaggi — diceva Giuseppe Ferrari — appaiono e scompaiono come dei sogni», eppure hanno una presenza costante, marcata con forza dalla sua arte. Perciò i fratelli Grimm ritenevano che «questa raccolta di fiabe, tra quante ne furono fatte presso qualunque popolo», restò «per un pezzo la migliore e la più ricca». E Vittorio Imbriani poteva a sua volta affermare che «nel Basile tutto è indovinato», e che egli «ha saputo dare la forma adatta a questi racconti impersonali e nel contempo imprimere a questa forma il suggello della personalità propria».
Insomma, un capolavoro non usurato, né diminuito dalla sua dimensione barocca, né riducibile a documento folcloristico, e rafforzato, invece, dalla sua tensione fiabesca e dalla sua geniale invenzione linguistica e stilistica, in una prosa napoletana così tersa e stagliata nello sviluppo dei temi scelti dal Basile, ma anche così, quando occorre, delicata e sottile .