Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 16 Lunedì calendario

“DELFINI E PETTIROSSI A TAVOLA” IL BUSINESS ILLEGALE DEI CIBI PROIBITI


IN PENTOLA ci finiscono anche pezzi di delfino. E ricci di bosco, bolliti vivi poco prima di andare in letargo, quando la carne è più grassa. I pettirossi del Triveneto vengono spellati, infilzati su bastoncini e fatti arrosto. In Aspromonte, si friggono ancora gli scoiattoli. Il ricettario proibito (e costosissimo) della cucina italiana non fa prigionieri: cuoce a fuoco lento specie protette, cetacei in via di estinzione, selvaggina non cacciabile, remore etiche, afflati animalisti, buon senso. In nome dell’alta cucina, ammesso che di tale si tratti, o della fame. Ma con gravissimi danni al patrimonio naturale.
L’ultima scoperta, oggetto di un recente servizio delle Iene, fa orrore. Sul litorale romano alcuni ristoratori, sottobanco, servono il delfino, che non si può pescare né mangiare. Eppure se chiedete un po’ di “black” vi portano il filetto di stenella striata, l’esemplare più comune nei nostri mari. Lo vendono anche essiccato da asporto. Costa un occhio, duecento euro al chilo. «Se il prezzo è così alto, vuol dire che c’è domanda. E non riguarda solo il Lazio, purtroppo», spiega Ciro Lungo, responsabile del servizio Cites del Corpo Forestale che si occupa della tutela delle specie protette dalla convenzione di Washington. Come ci finiscono in pentola, i delfini? Nella “migliore” delle ipotesi sono quelli morti intrappolati nelle reti dei pescatori, i quali invece di denunciarli alla Capitaneria di Porto tagliano loro coda e testa e li vendono al mercato facendoli passare per squali. Nella peggiore, sono vittima del bracconaggio, in tempi di crisi tornato a essere fenomeno criminale di una certa rilevanza. Dal gennaio 2011 allo scorso settembre, per dire, la Forestale ha contato 2.076 reati, soprattutto in Puglia, Lombardia e Campania, 1.431 persone denunciate, 12 arresti, più di 5.000 multe per un totale di 2,8 milioni di euro.
È solo per i bracconieri che in tutto il Triveneto, nel Friuli e in parte della Lombardia si riescono a mangiare i pettirossi, sterminati a migliaia nonostante sia vietata la caccia. «Sono catturati in val Trompia e in val Sabbia, rivenduti spennati a 2,5 euro l’uno e serviti illegalmente dai ristoranti nei giorni di chiusura — dice Isidoro Furlan, vice comandante della Forestale di Belluno — con 50 euro a piatto ti mangi quattro-cinque pettirossi allo spiedo». In Emilia, in Abruzzo e Molise c’è chi cucina i ricci di bosco, la cui preparazione assomiglia a un trattato sulla crudeltà: «I bracconieri non riescono ad ammazzarli perché si chiudono a palla — racconta Furlan — quindi li buttano ancora vivi in pentola, nell’acqua bollente, poi li scuoiano e li friggono». Sull’Aspromonte, in Calabria, sopravvive l’usanza di consumare il filetto di scoiattolo, in Veneto quella di mangiare i ghiri con la polenta. Ce ne vogliono 4 o 5 per 6 persone. Non sono in via di estinzione ma per legge non si potrebbero abbattere.
Così come è vietatissimo mangiare le cieche, le piccole anguille trasparenti essenziali per il ripopolamento della specie. Partono dal mar dei Sargassi, unico posto al mondo dove si riproducono, e risalgono le coste dell’Europa e dell’Africa. Ma in Toscana, soprattutto in provincia di Pisa, le cèe, pescate di nascosto e fatte al forno, sono considerate piatto d’eccellenza. È anche per questo motivo che dai nostri mari stanno sparendo le anguille europee, diminuite dell’80 per cento negli ultimi anni. Ora non si possono più catturare, a meno che non provengano da allevamenti sottoposti a piani di gestione. Campania, Sicilia, Basilicata e Puglia non ce l’hanno eppure è qui che vengono sequestrati i quantitativi maggiori. Spesso insieme a quintali di datteri di mare: mangiarli è un reato perché per raccoglierli i pescatori prendono a martellate le coste. Ma non si fa fatica a trovarli nei mercati, soprattutto di Napoli e Bari, a 80 euro al chilo. Così come è facile trovare il caviale, le pregiate uova dello storione a rischio estinzione. Se sul vasetto acquistato non c’è un’etichetta che si rompe quando lo si apre, vuol dire che è arrivato in Italia illegalmente, nascosto in qualche bagagliaio.