Jaswant Singh, La Stampa 16/12/2013, 16 dicembre 2013
LA PALUDE AFGHANA
Nonostante qualche rilancio all’ultimo minuto del presidente afghano Hamid Karzai, pare che gli Stati Uniti e l’Afghanistan abbiano concordato un accordo bilaterale di sicurezza per gestire gli 8.000-10.000 soldati (soprattutto americani) che rimarranno in Afghanistan dal prossimo anno. Ma l’Afghanistan resta una fonte di notevole incertezza – e di un elevato livello di ansia - in una regione già instabile.
Anche se l’esercito afghano quest’anno si è comportato sorprendentemente bene, preparandosi ad assumersi la piena responsabilità per la sicurezza del Paese, i governi della regione restano del tutto scettici sulla sua capacità di opporsi a una controffensiva dei talebani senza il forte sostegno assicurato dagli Stati Uniti. Ma gli americani si stanno ritirando e nessun altro Paese è disposto ad assumersi le responsabilità che loro stanno abbandonando.
In questo contesto, il timore che l’Afghanistan si ritrovi un’altra volta fuori controllo rischia di diventare una profezia che si avvera. In realtà, esaminando con maggior attenzione i diversi approcci verso l’Afghanistan dei governi «chiave» si vede che solo gli Stati Uniti mantengono una posizione coerente.
La politica pakistana è sostanzialmente in conflitto con se stessa. Dall’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, il Pakistan ha visto il Paese come una fonte di «profondità strategica» nella sua decennale inimicizia con l’India. Il risultato è un impegno su entrambi i fronti nel conflitto Usa- talebani: permette gli attacchi dei droni statunitensi contro i leader talebani afghani che si nascondono nelle province occidentali, ma non si sforza più di tanto per affrontare i talebani sul terreno. Così, in questa logica, il Pakistan può mantenere abbastanza ascendente sui talebani da garantirsi la possibilità di fare pressione sul governo dell’Afghanistan. Ma sono stati i talebani, alla fine, a guadagnare profondità strategica nella loro guerriglia contro l’Afghanistan dal Pakistan - guerra che è diventata una seria minaccia alla sicurezza del Pakistan. I talebani pakistani quest’anno hanno ucciso centinaia di soldati pakistani. E la nuova strategia del primo ministro Nawaz Sharif – volta a cercare un accordo di non interferenza con i talebani pakistani – con ogni probabilità aggraverà l’instabilità interna.
Nel frattempo, l’India ha cercato di controbilanciare l’influenza del Pakistan sui talebani fornendo al governo afghano investimenti, addestramento militare, aiuti e altre forme di sostegno. Ma ciò equivale a puntare tutto su un unico tavolo, il governo afgano - una strategia particolarmente rischiosa in un ambiente così volatile.
Anche la politica afghana della Cina ha le sue insidie. La Repubblica Popolare ha investito miliardi di dollari in Afghanistan, tra cui un pagamento di tre miliardi di dollari per i diritti della miniera di rame di Mes Aynak. Benché i cinesi abbiano offerto a parole il loro sostegno agli sforzi antiterrorismo delle forze internazionali in Afghanistan, hanno rifiutato anche il più piccolo ruolo militare. E hanno fornito solo circa 250 milioni di dollari di aiuti negli ultimi dieci anni - una somma irrisoria date le potenziali conseguenze dell’instabilità afghana sull’economia cinese, che ha un volume di 6.000 miliardi di dollari.
Per maggior autotutela, la Cina sostiene di difendere la sua dottrina della non-ingerenza negli affari interni degli altri Paesi. Ma, con il governo afghano che chiede aiuto all’intera comunità internazionale, l’aiuto cinese non violerebbe questo principio. Inoltre, la politica non interventista della Cina potrebbe finire per compromettere i suoi investimenti in Afghanistan - per non parlare della minaccia alla sicurezza se i talebani, rafforzatisi, fornissero aiuto o rifugio ai sempre più numerosi separatisti islamici uiguri nella regione cinese dello Xinjiang.
La politica afghana dell’Iran è stata, di riflesso, antiamericana per gran parte dell’ultimo decennio. Ma nel 2001 il governo iraniano guidato dal presidente riformista Mohammad Khatami, in sostanza, ha acconsentito all’invasione statunitense dell’Afghanistan, fornendo anche, con discrezione, la sua assistenza. L’Iran si è mostrato scrupoloso nel chiudere il confine ai talebani - e nell’incarcerare gli esponenti talebani e di Al Qaeda che hanno cercato rifugio. Anzi, è stato l’Iran per primo a suggerire che fosse Karzai a guidare il nuovo governo afghano e il governo di Khatami aveva promesso aiuti per 560 milioni di dollari nell’arco di cinque anni alla prima conferenza dei donatori per l’Afghanistan, all’inizio del 2002.
Ma il famoso discorso sull’«asse del male» del presidente degli Stati Uniti George W. Bush – diffuso pochi giorni dopo, che menzionava l’Iran come uno dei tre nemici più pericolosi dell’America – portò a un’inversione della politica iraniana. Il successore di Khatami, Mahmoud Ahmadinejad, ha condannato ripetutamente la presenza delle forze Usa e Nato in Afghanistan e persino agito per ostacolare i loro sforzi.
Si spera che il recente accordo sul programma nucleare iraniano preluda al ritorno ad una politica iraniana più flessibile verso l’ Afghanistan - indispensabile se si vuole una soluzione regionale ai problemi del paese. Data l’imminente partenza dell’America, una soluzione del genere è sempre più urgente. Arrivare a un consenso regionale tuttavia non sarà facile, data la natura e gli interessi disparati dei regimi coinvolti. Iran, Cina, Tagikistan e Uzbekistan sono tutte dittature – religiosa la prima, capital-comunista la seconda e personali le ultime due. L’India è una democrazia e il Pakistan una democrazia riottosa. La vicina Russia è sempre più feudo personale del presidente Vladimir Putin, che sembra intenzionato a far rivivere la Guerra Fredda con gli Stati Uniti piuttosto che costruire relazioni strategiche vitali che riflettano la perdita di prestigio della Russia. Tuttavia, tutti questi Paesi (magari con la vera, grande eccezione del Pakistan) possono mettersi d’accordo su alcuni obiettivi fondamentali. In primo luogo l’Afghanistan non deve diventare un porto sicuro per i terroristi. Il Mullah Mohammed Omar - il leader dei talebani, che si dice si nasconda in Pakistan - deve capire che se i talebani utilizzeranno una qualsiasi influenza politica formale possano guadagnarsi in Afghanistan per sostenere le attività terroristiche, dovranno affrontare l’opposizione dell’intera regione. In secondo luogo, date le loro limitate risorse finanziarie, i vicini dell’Afghanistan devono contare pesantemente sui paesi che possono influenzare qualsiasi futuro governo afghano. Gli Stati del Golfo, ad esempio, hanno i mezzi per investire nella costruzione di un Afghanistan che offra reali opportunità a tutti i cittadini - in particolare ai giovani uomini, spesso spinti dalla mancanza di scelta tra le braccia dei reclutatori di terroristi. Realisticamente, tuttavia, le possibilità di conseguire un risultato di questo genere sono scarse.
E, aspetto più importante, i vicini dell’Afghanistan non devono fare giochi di potere nel Paese, nella speranza di guadagnare qualche lieve vantaggio rispetto agli altri. Tale percorso, come abbiamo visto, porta solo al caos, una condizione da cui nessun Paese trae vantaggio.
Copyright: Project Syndicate, 2013.
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Traduzione di Carla Reschia
Jaswant Singh*
*Ex ministro indiano delle Finanze, degli Esteri e della Difesa