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 2013  dicembre 16 Lunedì calendario

LA VECCHIA GUARDIA IN PRIMA FILA ASSISTE ALL’ASSEMBLEA DEI GIOVANI


L’assemblea nazionale del Pd comincia così: tutti in piedi a cantare l’Inno di Mameli. Sono le 11 e 17 minuti. Chiedo a un signore al mio fianco: ma anche alle assemblee del vecchio Pci si cominciava cantando Fratelli d’Italia? «Ma per l’amor di Dio!», risponde: «Si cominciava con l’Internazionale!». A quei tempi solo il Msi di Almirante osava aprire i lavori inneggiando alla patria. E fino a pochi mesi fa era il Pdl a cominciare con l’Inno di Mameli, adesso sostituito con un più puntuale «Meno male che Silvio c’è». Ora è la sinistra a stringersi a coorte e ad esser pronta alla morte. I tempi cambiano.
Non senza qualche disagio, però. Alle 9 di mattina i cuperliani si chiudono in una stanza in una specie di pre-assemblea. Mi metto ad aspettarli fuori dalla porta. Il primo a uscire è Daniele Marantelli, deputato varesino entrato nel partito con la segreteria Berlinguer. Gli chiedo: non è più il Pci di una volta? «Se è per quello», risponde, «non è più neanche il Pd di una volta. Per dire: sul programma era scritto che aprivano i cancelli alle 8,30 e io alle 8,30 ero qui. Hanno aperto alle nove. Sono dettagli. Ma l’impressione è che ci sia un’altra idea di partito. Adesso conta di più il rapporto diretto con l’opinione pubblica».
Arriva Leonardo Domenici, predecessore di Renzi come sindaco di Firenze. I due, diciamo così, non è che si amino molto. Sorride: «Magari vado a fare un giro per Milano con i miei figli». All’uscita della riunione dei cuperliani ci si incontra e ci saluta con frasi di questo tipo. Alla domanda: «Come va?», le risposte variano da un «Compatibilmente con il momento» a un «Teniamo botta», fino a un «Siamo qui» di un delegato di Pavia che aggiunge perfido: «Tutti insieme al Braccobaldo show». Però l’ordine di scuderia è ancora, come nel vecchio Pci, l’obbedienza. Spiega Marantelli: «Non dobbiamo dare l’idea di essere i carugnìn de l’uratòri. In queste condizioni non si può presentare al Paese un partito diviso».
Rispetto all’ultima assemblea, che pure è stata solo tre mesi fa, l’aria è molto diversa, le facce che girano quasi completamente nuove: i delegati eletti perché collegati a Renzi sono in grandissima parte esordienti. Lui arriva alle 10,30 e si capisce subito che si mangerà tutta la giornata: lo insegue una folla di giornalisti, teleoperatori e fotografi. Non c’è confronto con i segretari del passato. La personalità di Renzi è straripante. È il conquistatore; oppure «Il seduttore», come hanno intitolato il loro libro, appena uscito, i giornalisti Simona Poli e Massimo Vanni. Un volontario che sta spingendo un disabile sulla sedia a rotelle si avvicina a David Sassoli e gli dice: «Speriamo che non sia arrivato l’Unto del Signore». Comunque la si pensi, ora anche la sinistra ha un leader, e non è detto che sia un male.
In sala tutto il linguaggio è nuovo e un po’ social forum. Quello che introduce i lavori dice che il duemilatredici è diventato duemilacredici. Alle 11.26 si presenta a parlare Enrico Letta. La collettiva botta di giovanilismo ha contagiato anche lui, che è giovane ma di solito non giovanile: ora è in maglione, superando così a sinistra (o a destra? Qua non si capisce più niente) lo stesso Renzi, che più tardi salirà sul palco in giacca e cravatta.
Quando poi comincia a parlare, per Renzi è un trionfo. Sventolano perfino le bandiere del Pd, e pensare che alle primarie dell’anno scorso ai comizi del sindaco di Firenze di bandiere non se vedeva una. Così come non si vedevano deputati del Pd. Oggi tante bandiere e tanti deputati, e qualcuno commenta che a volte non sono due cose tanto diverse.
I rottamati sono seduti nelle prime file. D’Alema, Veltroni, Marini, Rosy Bindi. Se per entrare si fosse dovuto pagare un biglietto, si potrebbe dire che le loro facce mentre parla Renzi valgono il prezzo del biglietto. Soprattutto quando si sentono uragani di applausi. Chissà come starà vivendo questo momento, ad esempio, Pier Luigi Bersani. Lo vedo durante la pausa mentre fuma un sigaro sul terrazzo. Sta parlando con alcuni giornalisti delle tv e mi avvicino cercando di sentire quello che dice. «Che cosa sta dicendo?», chiedo a una signora che gli sta vicino e che ha un pass con scritto «organizzazione». «Frasi di circostanza», mi risponde sorridendo.
La pausa pranzo segna però un clamoroso punto a favore del vecchio Pci. Alle feste dell’Unità di una volta per mangiare c’era l’imbarazzo della scelta, tra cucine tipiche e salamelle. Qui mettere qualcosa sotto i denti è un’impresa. Code interminabili alla cassa e altrettanto al bancone per ritirare il cibo. Meglio rinunciare.
Incontro Andrea Gnassi, sindaco di Rimini, dove Renzi ha preso il 76 per cento: «Abbiamo dato una mano a Matteo», dice: «La sensazione della gente è: questa volta o mai più». «Vedo un clima bello, c’è voglia di riscatto», mi dice Simona Bonafè, renziana della prima ora. In effetti tutto sembra cambiato. Renzi ha di colpo fatto invecchiare tutto il resto. L’assemblea finisce, la sala si svuota e del tempo che fu rimangono, abbandonate sulle seggiole o per terra, le copie dell’Unità che l’organizzazione aveva fatto distribuire.