Elisabetta Gualmini, La Stampa 16/12/2013, 16 dicembre 2013
UN’AGENDA STILE "PRENDERE O LASCIARE"
Esattamente come aveva promesso, ieri Matteo Renzi a Milano ha preso in mano le sorti del governo. Ha dettato l’agenda all’esecutivo proponendo un accordo iper-dettagliato alla tedesca che gli consente di puntare a un duplice obiettivo. Se le riforme riusciranno, Renzi potrà presentarsi agli elettori con un primo pacchetto di misure popolari da rivendicare a proprio merito e una macchina dello Stato che decide più velocemente. Se invece tutto andrà a rotoli, sarà chiaro che il sindaco-segretario ci ha provato e ci sarà comunque qualcuno su cui scaricare il biasimo: da Alfano a Grillo, passando per Berlusconi. In piena campagna elettorale per le europee, Renzi non può permettersi di cincischiare.
Passato il Natale, non si scherza più. Non si può ripetere la «brutta figura» dell’Imu, il prezzo altissimo pagato sull’altare delle larghe intese, con Berlusconi che ha pure rovesciato il tavolo passando all’opposizione. E così sul lavoro, sui diritti civili e le riforme istituzionali Renzi inanella le sue proposte ultimative, con annesse scadenze, i patti a cui é difficile dire di no, da prendere o lasciare.
Alcuni contenuti, se si va oltre le formule stentoree buone per la platea congressuale e per le tv, non sono a dire il vero proprio chiari. Parlando ai delegati del Pd, Renzi si tiene saldamente stretto ai capitoli più cari alla sinistra (come ha prontamente colto Alfano, per ridimensionare la portata del messaggio). Ma proprio sulla questione numero uno, sul lavoro, Renzi dovrà spiegare meglio in quale direzione intende andare. Se tornare a una visione assistenzialista, come quella incarnata (almeno fino a ieri) dalla neo-responsabile in segreteria Pd, Marianna Madia, sostenuta alle primarie dei parlamentari dalla Cgil (e, tra le altre cose, autrice di un libro sulla precarietà con prefazione di Susanna Camusso), che punta su sussidi e garanzie sociali per tutti (un non ben specificato reddito di inclusione universalistico finanziato togliendo risorse non si sa dove) e l’ennesima riforma dei centri per l’impiego che sino ad oggi hanno intermediato il 4% della forza lavoro, o quella opposta, orientata alla crescita della ricchezza come volano per redistribuire, che pensa piuttosto di investire le non molte risorse disponibili per ridurre le tasse sul lavoro (come ha chiesto Filippo Taddei, anche lui in segreteria Pd) e non criminalizza la flessibilità (come diceva Pietro Ichino, graditissimo a Renzi nelle primarie del 2012). Non si può tenere insieme tutto; attaccare il sindacato e poi proporre politiche del lavoro che ammiccano al sindacato. E poi lo ius soli e la patata bollente della riforma elettorale e dell’abolizione del Senato, con un ultimatum rivolto a Grillo. (E Beppe ha risposto in fretta: picche.)
Insomma Renzi detta le sue condizioni, ed è credibile, sul palcoscenico dell’Assemblea Nazionale, perché ha davanti a sé una platea oggi disposta a seguirlo su tutto. Un partito che sembra docile e addomesticato in cui gli antagonisti sono stati ridotti a minoranze deboli e leali. Bisognerà vedere se i gruppi parlamentari suoneranno ordinatamente lo stesso spartito. Ma questa oggi appare la novità del Pd. C’entra poco la sfida generazionale (di trentenni o quarantenni, balzati sotto i riflettori della politica, che replicano malamente i contenuti diramati dal leader). E’ la forza personale di Renzi che forse riuscirà a dare una scossa. Il Pd ha trovato un leader e il leader ha trovato il partito. E il Pd rompe non pochi tabù. Ha un segretario che cura la comunicazione quanto la strategia, la scena quanto la piattaforma. Una roba che deve aver fatto venire l’orticaria ai dirigenti più anziani. Qualcuno si rivolterebbe nella tomba a sentire gli applausi scroscianti dell’assemblea agli incitamenti motivazionali del segretario, da «rimaniamo ribelli» a «resta speciale e non ti buttare via». Con quella strizzatina d’occhio che Renzi fa sempre prima di cominciare a parlare (ma a chi?) e la girandola di nomi propri che fanno venire il mal di testa, da Enrico, Guglielmo, Pierluigi a Gianni&Pippo, passando per le undicenni Fatima e Barbara, a Katia e Paolo (ma Katia chi?). Insomma il Pd ha cambiato pelle. Se starà sulla frontiera e non nel museo delle cere lo vedremo tra poco. Anzi tra pochissimo. Entro gennaio.