Vincenzo Iurillo; Giuseppe Lo Bianco; Davide Milosa; Tommaso Rodano, Il Fatto Quotidiano 16/12/2013, 16 dicembre 2013
SONO DAVVERO PALAZZI DI GIUSTIZIA?
Una cartella. Un’eredità. Una separazione. Magari una multa, il furto subito, la lite condominiale. Il signor Rossi è costretto a entrare in un tribunale o andare dal giudice di pace. E affrontare la quinta essenza della burocrazia vestita da giustizia. Nord, centro, sud e isole, i problemi principali non cambiano, giusto le sfumature.
Il fascicolo del 1977
Dicono che tra i polverosi processi del Tribunale civile di Torre Annunziata (Napoli) è possibile imbattersi in un fascicolo aperto nel 1977. Un’esecuzione immobiliare. Un pignoramento che si è incagliato tra le mille difficoltà legate alla vendita del bene e al tira e molla tra creditore e debitore. Anzi, ai loro eredi ormai. “Il procedimento è sospeso” precisa il magistrato. Quindi il record di vecchiaia tra quelli in corso slitta a una causa del 1988. Il presidente della Repubblica era Francesco Cossiga. Il presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan. C’era ancora l’Unione Sovietica. E il Muro di Berlino. Tutti morti o caduti sotto i colpi della Storia, ma qui la Giustizia, in qualche modo, sopravvive e resta in piedi. Sia pure tra mille difficoltà. Con gli accorpamenti della riforma Severino, il tribunale di Torre Annunziata, che già trattava le cause provenienti da un comprensorio frizzante, problematico e ad alta densità camorristica, ha dovuto assorbire anche i fascicoli provenienti dalle sedi distaccate soppresse di Gragnano, Castellammare di Stabia e Sorrento. E così, mentre il parcheggio affidato in gestione a una cooperativa che incassa due euro ad auto si riempie all’inverosimile, il primo piano dell’edificio, dedicato al contenzioso civile, in certi orari assume le fattezze di un suk arabo. Decine e decine di avvocati e clienti accalcati in pochi metri quadri, a discutere ad alta voce, fino ad avvolgere l’ambiente con un brusìo insopportabile. Se indossi un vestito grigio e una cravatta tutti ti scambiano per un avvocato. Ascolti le cause di lavoro al piano terra con le parti che raccolgono le deposizioni in corridoio. Entri nelle stanze delle udienze civili e ti fai tranquillamente i fatti degli altri. Coi nomi e cognomi. Fa eccezione l’aula riservata alla trattazione delle cause di famiglia: separazioni, affidamenti, liti coniugali. Davanti alla porta c’è una guardia giurata, entra solo chi deve. Ed uno alla volta. Oltre 30 procedimenti. La fila è lunga una decina di metri. Le cause hanno tutte lo stesso orario. I legali se ne lamentano. “Vengo puntuale alle 10, ma ci sono 15 cause prima della mia. Altrove, sono scadenzate con precisione. Cosa faccio nell’attesa? Telefonate di lavoro”. Beato chi riesce a sentirle, in questo frastuono. Il giudice accende una sigaretta e tira un sospiro di sollievo: “Anche questa giornata è finita”. Fino a pochi minuti prima la stanza tre per tre aveva contenuto fino a trenta persone contemporaneamente. “Non è il mio ufficio. Non ho un ufficio. Faccio udienza dove capita. Questo, che ha il computer, riesco a utilizzarlo solo una volta a settimana. Le altre volte scrivo a penna. E per studiare le cause, mi porto le carte a casa”. Tranquilli, però: può farlo solo il magistrato. L’era dei mariuoli che sottraevano un fascicolo per farlo scomparire, assicurano, è finita. Almeno qui. La cancelleria funziona di buona lena. I controlli sono rigorosi. Un avvocato se ne lamenta: “Prima fotocopiavo quel che mi interessava senza pagare i diritti”. Non ci sono più i tribunali di una volta.
Avvocati distribuiscono numeretti
Il signor Rossi ha ricevuto a casa una cartella esattoriale. Una sorpresa inaspettata e – ritiene – illegittima. Vuole presentare ricorso. Si deve rivolgere al giudice di pace di Roma. Non ha idea di cosa lo aspetti. Arriva di buona lena, un giovedì mattina, verso le 9 e 30. L’ufficio è aperto solo da mezz’ora. È lecito aspettarsi un po’ di fila. All’ingresso trova una piccola sala d’attesa e una porta chiusa. I posti a sedere, pochi, sono già tutti presi. Ma la confusione non è eccessiva: siamo in un ufficio pubblico e il signor Rossi ha visto di peggio. Chiede alle persone sedute come sia organizzata la fila, gli viene indicato un uomo con un foglio di carta e una penna. È un avvocato. “Lei che numero è?” – chiede al signor Rossi –. “Sono appena arrivato”. “Allora la metto in fondo alla lista, è il novantaduesimo”. Il signor Rossi fa fatica a capire. Il suo nome viene scritto a stampatello in fondo a un elenco lungo e fitto. “Ci vorrà un bel po’ – spiega il “gestore” del foglio – non so se ce la fa stamattina, doveva venire prima”. Il signor Rossi ha appena scoperto come funziona la fila al giudice di pace di via Teulada, Roma, Italia, anno 2013. E questa è solo la coda per l’“iscrizione a ruolo”, l’atto con cui si presenta il ricorso e inizia la causa. Siamo attorno al numero 20. Il signor Rossi si chiede dove siano finiti gli altri settanta circa che vengono prima di lui. Nella stanza ci sono poco più di una decina di persone. Gli altri – gli viene spiegato – sono “in giro”; a lavoro o a prendere un caffè. La lista passa tra le mani degli avvocati che si alternano di fronte alla porta. L’attesa la gestiscono loro. “Sonia! Anche tu in fila?” – una giovane praticante ferma una collega – “Ti serve un numero? Io ne ho uno che mi avanza”. Il signor Rossi è stordito. Decide di fare due passi nel palazzo di via Teulada. Trova avvisi dattiloscritti su ogni parete: “Si comunica che ogni utente può depositare un massimo di 5 ricorsi”, oppure “Si ribadisce che l’ufficio non tiene conto degli elenchi esterni formati prima dell’apertura dell’ufficio, alle ore 9.00, bensì verrà considerata la fila fisica ad personam ”. Falso. Per ottenere una posizione in cima alle liste d’attesa, quelle scritte a penna nelle mani degli avvocati, è prassi rivolgersi ad agenzie di servizi (o addirittura a “professionisti” in proprio) che arrivano all’alba per segnarsi ai primi posti. Paghi un privato, ottieni un servizio pubblico. Il signor Rossi lo ignorava. Non può sapere nemmeno che stamattina è stato fortunato: la sua fila “scorre” e con appena tre ore e mezza di attesa, sul filo della chiusura dell’ufficio (alle 13), riesce ad accedere allo sportello e sbrigare la sua pratica. Alla fine della causa, quando andrà a richiedere la copia della sentenza, dovrà essere molto più rapido e fortunato: in quell’ufficio non si riescono a “lavorare” più di venti richieste al giorno: la fila è gestita sempre dagli avvocati e dominata dalle agenzie. In mezzo, poi, c’è la giustizia. Dal momento dell’iscrizione a ruolo alla prima udienza, a volte passano anche cinque mesi. La decisione dei giudici di pace (appena usciti da uno sciopero di due settimane per denunciare “una condizione di precariato intollerabile e illegale”) è discrezionale: non sempre avviene alla prima seduta. E non sempre, assieme al dispositivo (la decisione), il giudice emette anche la sentenza: ci sono dispositivi emessi nel 2011 ancora in attesa di sentenza. Il signor Rossi, per fortuna, ancora non lo sa.
In fila dall’alba
La causa è andata in decisione il 6 luglio del 2010. Il fascicolo è stato consegnato al giudice Enrico Catanzaro per la sentenza il 9 novembre 2010. Ma il verdetto è stato depositato in cancelleria, in “minuta”, dopo oltre tre anni. E solo dopo che una delle parti ha depositato il 9 ottobre scorso un’istanza per definire il procedimento, atto propedeutico per attivare un’azione di responsabilità nei confronti del giudice. E la sentenza ancora non è stata pubblicata. Benvenuti nel caos della giustizia civile a Palermo, dove i genitori di un bimbo (ormai ragazzo) disabile mentale attendono da anni la decisione sulla richiesta di risarcimento danni nei confronti dei medici accusati di avere gestito male il parto. E dove ogni cittadino si aggira smarrito, ammesso che riesca a entrare. Gli ostacoli, nel palazzo di Giustizia di Palermo, sono concreti fin dall’ingresso, negato ai disabili per via degli scalini che conducono al metal detector: i normodotati sono invece costretti a uno slalom forzato tra gli armadi di ferro stracolmi di faldoni che ostacolano il passaggio nel corridoio del secondo ammezzato del palazzo, davanti alla prima, alla terza e alla seconda sezione civile impegna ogni giorno centinaia di avvocati e utenti del palazzaccio, attenti a non urtare, una volta aperte le porte delle cancellerie, le scale protese verso il tetto, dove le pile dei processi, accumulati per terra secondo un ordine apparentemente caotico, ma decrittabile dai funzionari, arrivano a lambire il soffitto: a prenderli, per depositare o estrarre copia di atti, ormai sono gli stessi avvocati per non gravare sul lavoro di cancellieri e segretari. Ma l’istantanea del caos della giustizia civile nel capoluogo siciliano si può scattare ogni venerdi mattina, quando al primo piano del palazzo, quasi duecento avvocati affollano l’aula (e soprattutto l’area antistante) delle udienze collegiali della seconda sezione, in attesa che venga chiamata la propria causa, tra le oltre cento fissate per quel giorno: molte di esse subiranno rinvii fino a cinque, sei anni. “Quella fissata per il 13 dicembre scorso – dice l’avvocato Dario Greco, presidente nazionale dell’Aiga fino a ottobre scorso – arrivava da un rinvio del maggio 2009”. E lo stesso affollamento si nota ogni giorno dietro la porta del ruolo generale del Tribunale: alle 8.30 sono già cinquanta gli avvocati che hanno apposto a penna il proprio nome nel foglio di carta appeso all’uscio. A metà mattinata saranno oltre trecento. E se i giudici di pace ormai chiedono sempre più spesso agli avvocati di sollecitare congiuntamente i rinvii delle cause, che danno anche ad un anno e mezzo, perché non riescono a smaltire l’enorme carico di lavoro, la soluzione per cancellare una sistema burocratico borbonico è il processo telematico, che il ministero di via Arenula studia da oltre dieci anni e che dovrebbe entrare in vigore dal primo luglio prossimo: a Palermo un protocollo già firmato prevede l’avvio di un “doppio binario” sperimentale, e cioè l’invio on line certificato degli atti accanto al tradizionale deposito cartaceo, fin dal prossimo febbraio. “Ma in questo caso il condizionale è d’obbligo – conclude l’avvocato Greco – ai magistrati, infatti, non è ancora stato fornito il software adatto”.
Arresti confermati. E di nuovo liberi
Nel gabbione sono in dieci. Chi trova posto si siede sulla panca di metallo, gli altri attendono in piedi. Sono quasi tutti stranieri. Razze del mondo riunite nell’aula numero uno, piano terra del Palazzo di Giustizia di Milano. C’è chi la sera prima è stato pizzicato con qualche grammo di droga, chi ha alzato troppo il gomito e si è ritrovato nelle camere di sicurezza della Questura di via Fatebenfratelli per resistenza, altri, invece, stanno lì perché clandestini. Dietro alle sbarre c’è anche un senegalese di 28 anni, irregolare. Parla fitto con il legale. Racconta che è stato arrestato perché ha venduto droga a un vigile urbano che aveva scambiato per cliente. Qui tutti indossano i vestiti della sera prima quando carabinieri o polizia li hanno fermati. Mostrano volti stravolti. Sguardo fisso. Moltissimi di loro per queste aule ci sono già passati più di una volta. Arrestati e processati per direttissima. Un rito che nella sua semplicità (dibattimento a poche ore dal fermo) promette di snellire la macchina della giustizia, ma che nella realtà si è trasformato nell’ennesima voce di spesa e di spreco. Con gli imputati che usufruiscono dei riti alternativi e della legge Simeone-Saraceni che per le pene inferiori ai tre anni esclude il carcere e lascia libero accesso alle misure alternative. Cosa che capita molto spesso visto che i reati gestiti dalle direttissime sono sempre di entità minima. Ma c’è di più: la stragrande maggioranza degli imputati si dichiara indigente e dunque, grazie a una semplice autocertificazione (si deve dichiarare meno di 9200 euro all’anno) può accedere al gratuito patrocinio, pagato dallo Stato. Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, il corridoio di marmo che attraversa da parte a parte il palazzo di Giustizia fa da quinta per attori e comparse che il giorno e la notte precedente hanno animato le strade di Milano. Durante tutta la mattina e una piccola parte del pomeriggio, regna la confusione. Ci sono gli imputati, ma anche gli agenti che compilano decine di verbali. C’è il giudice, rigorosamente monocratico, che ascolta gli interpreti tradurre in tutte le lingue del mondo: dal cinese al russo all’arabo. E poi gli avvocati. Il resto sono processi che durano non oltre i venti minuti e si sdoppiano nella prima udienza, quella che convalida il fermo ma quasi mai dispone il carcere e la seconda in cui si celebra la sentenza. Risultato: chi (e non sono molti) si presenta alla seconda udienza (un mese e mezzo dopo) pesca tra i vari riti alternativi e si ritrova libero. Come capitato al giovane senegalese che ha venduto droga a un ghisa. Per lui il giudice ha convalidato l’arresto, dopodiché lo ha messo fuori in attesa dell’udienza. Il record del giro spetta a due marocchini di 24 e 33 anni che il 27 luglio scorso dopo essere stati processati in direttissima per un un furto, sono stati arrestati nuovamente per aver rubato un paio di magliette in un negozio del centro. Dopo l’arresto in flagranza, i carabinieri hanno scoperto nelle tasche di uno dei due un verbale d’identificazione della polizia locale.