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 2013  dicembre 16 Lunedì calendario

LA STORIA SONO LORO, SOLI CONTRO IL PIOMBO


Mariano Rumor, Presidente del Consiglio. L’aria grave. La voce meccanica. Il bianco e nero del 12 dicembre 1969: “L’azione fermissima, immediatamente intrapresa per individuare e colpire i vili delinquenti, è la certezza che io in nome del governo dò al Paese”. Quarantaquattro inverni dopo, in quel cratere di delusioni che sono le promesse, Piazza Fontana è ancora lì. Ne “Gli anni spezzati”, la trilogia sui Settanta che Rai Uno manderà in onda da metà gennaio in sei puntate, Emilio Solfrizzi la percorre riflettendo con un amico a passo lento. “Questo luogo non sarà mai più lo stesso”. Parla di golpe, fascisti e finti anarchici. Si scopre a dar ragione agli editori rivoluzionari. Interpreta un Luigi Calabresi lucido e molto solo che dal giorno della morte in Questura del “frenatore delle Ferrovie dello Stato in servizio a Porta Garibaldi” Giuseppe Pinelli: “Nel mio ufficio, con i miei uomini” sente il dovere di razionalizzare: “Non siamo stati in grado di spiegare che è successo”, e conta il tempo che gli resta. Lotta Continua gli augura la morte. All’università, sui volantini, ballano domande che sono già risposte: “Commissario che fai, spingi?”. Nei cortei cupi, con i caschi in testa, il volto coperto e i bastoni in bella vista, gli urlano fascista e gli gridano assassino.

La genesi
La finzione restituisce il clima d’epoca. Il repertorio conferma l’impressione. Graziano Diana, regista e sceneggiatore per Albatross e Rai fiction di 600 minuti che attraversano un decennio della storia d’Italia raccontata dalla parte delle vittime, non l’ha edulcorata. Ha chiesto l’aiuto di Luciano Garibaldi, Adalberto Baldoni e Sandro Provvisionato per la consulenza storica e poi nelle relative ristrettezze di bilancio (progetto elaborato fin dalla fine del 2005, 9 milioni di euro complessivi, ricostruzione impeccabile, affidata allo scenografo di Benigni, Bellocchio, Fellini e Risi, Giantito Burchiellaro, qualche interno serbo, qualche compromesso, una manciata di validi attori slavi), ha tracciato con pazienza le rette convergenti di tre destini. Un poliziotto, Luigi Calabresi. Un giudice (il magistrato genovese Mario Sossi sequestrato dalle Brigate Rosse nel ‘74, l’ottimo Alessandro Preziosi). Un dirigente della Fiat (Giorgio Venuti, l’attore Alessio Boni) che nella Torino del ’79 si trova a firmare sessantuno lettere di licenziamento a operai sospettati di avere contiguità con il terrorismo scoprendo poi di avere una figlia militante in una costola di Prima Linea (nel film Giulia Michelini). L’unico profilo di pura invenzione narrativa (con molte aderenze nel reale, compresa l’arbitrarietà di alcune di quelle “comunicazioni aziendali”) che la filologia de “Gli anni spezzati” concede all’atmosfera. Che è quella della guerra. Nel mondo rovesciato in cui si può entrare da stragisti in un’aula di giustizia, essere condannati in contumacia e diventare miliardari, travestirsi per diluire coscienza e rimorso in accettabile equilibrio, Graziano Diana ha scelto di non farlo. I suoi eroi hanno il fascino dimesso di chi si autoinfligge il castigo del princìpio. L’umanità dei martiri per caso che anche nella paura e nell’insonnia, marciano: “Chissà come sarai tu da grande”, dice Calabresi al figlio Mario: “Forse papà non riuscirà a vederti”.

Protagonisti e comparse
Il senso del dovere di Francesco Coco, procuratore presso la Corte d’Appello di Genova, un Ennio Fantastichini, tragico e dolente. Per impugnare la sentenza della Corte d’Assise (e dire una parola decisiva sullo scambio tra Mario Sossi e gli otto detenuti della XXII ottobre proposto dai brigatisti che tengono prigioniero il giudice) ha pochi giorni e una mostruosa pressione sulle spalle. Da un lato il suo delfino, l’amico Sossi, sorvegliato da Mara Cagol, processato da Alberto Franceschini, infine liberato dopo 35 giorni di cattività trascorsi in una villetta dell’Alessandrino. Dall’altra lo Stato. La linea della fermezza anni prima di Aldo Moro. In tribunale i colleghi gli chiedono clemenza e firmano petizioni. La moglie di Sossi, Grazia (Stefania Rocca ) evade dall’embargo della Rai per chiedere la liberazione del marito e affidare il suo durissimo appello alla Televisione Svizzera. La notte prima di presentare il parere, Coco soffre e si tormenta. Lo scrive e strappa fogli, fuma e inizia di nuovo. Poi firma e va a dormire. Gli telefona il Presidente della Repubblica. Gli chiede di non cedere. Coco spegne la luce, non cambia il testo di una virgola, infrange il suo universo di riferimento per sempre e dopo essersi espresso per il no (“Un arrogante voltafaccia” dirà Renato Curcio) va a morire ai piedi di una salita genovese intitolata a una santa, discutendo di diritto con un uomo della scorta, due anni dopo il sequestro Sossi.

Vendetta e ideologia
La vendetta ha la memoria lunga e non offre consolazioni. Non riannoda i fili, ma li sfrangia. Sfuma le stinte ideologie di un tempo accorciando le distanze tra i nemici, minaccia il perdono globale, pretende l’amnistìa ma da sempre dimentica- unica costante di un abito nazionale a identità variabile-gli anelli deboli su cui il film di Diana (patrocinato dai familiari delle vittime del terrorismo e dall’Associazione Nazionale Polizia di Stato) allarga meritoriamente lo sguardo. Così tra il portavalori Alessandro Floris, immortalato ad occhi aperti in istantanee da amatori che per alcuni segnano l’alba della lotta armata, ucciso come un cane nel 1971 mentre si attacca a una Lambretta in fuga, “perché ostacolava l’operazione di autofinanziamento dei compagni” e il tramonto della Fiat, ne “Gli anni spezzati” ritrovi il doloroso tributo dato dalle retrovie a un decennio atroce. L’odio. Le “risoluzioni strategiche”. Gli slogan. “Guida e Calabresi/ sarete presto appesi”. “Coco/Coco/è ancora troppo poco”. I cori da stadio. Il branco. A Milano come a Genova. A Settimo Torinese come nel cuore della produzione automobilistica italiana, fotografata nei mesi che precedono il corteo dei quarantamila, il declino industriale e la riconversione definitiva che Nicola Tranfaglia definirà: “Una radicale trasformazione della città”. Cognomi anonimi confinati in una breve. Baristi trucidati per sbaglio. Medici coraggiosi che denunciano i sabotaggi e pagano con la vita. Guardie giurate. Studenti della scuola di amministrazione aziendale della Fiat rastrellati, riuniti nella palestre, come a Beslan e gambizzati da commandi paramilitari a sangue freddo. Corone di fiori avvizziti. Ai margini della solitudine di chi dovette fare una scelta, al confine di un’opzione irreversibile, nel film di Diana prodotto da Alessandro Jacchia e Maurizio Momi, balla anche l’ostinazione di chi provò ad evadere altrove. In una complicata normalità che celebrava il futuro e lo sbarco sulla Luna, Italia-Germania 4-3 e Jon Voight sui manifesti di Midnight Cowboy, i beat, l’austerity, il disimpegno, l’amore libero e il referendum sul divorzio.

Ambizioni e risultati
Per dare un quadro d’insieme che tenesse uniti spirito civile, deliri verbosi: “Vogliamo essere sabbia non olio nei meccanismi del sistema”, buoni, cattivi, sommersi, salvati e stanze stanche in cui si discuteva “di terrorismo e di fotografia”, Diana ha evitato derive ideologiche. Lo attaccheranno (Garibaldi e Baldoni si sono occupati e forse sono ancora-se la definizione conserva un significato-di destra) ma anche se l’ambizione è enorme, non tutto funziona e certe sottotrame sentimentali del film hanno un impatto minore dell’affresco particolare, intimo e casalingo, alla destra politica (segnalata puntualmente e senza omissioni nei suoi tentativi di mimèsi e sovversione da Franco Freda in giù) il regista ha evitato di erigere impropri monumenti. Nel disegnare l’Italia dei Settanta, Diana che fu sceneggiatore dell’Ambrosoli di Placido, ha messo passione. La stessa che nella brughiera dove non si vede a un passo, Luigi Calabresi scorge come unico, nitido orizzonte verso cui puntare: “Il nostro paese è uscito dalla dittatura solo da vent’anni e adesso si trova al confine di due mondi, spinto da una parte e dall’altra. Noi siamo nel mezzo, siamo il vaso di coccio, questo mestiere non puoi farlo se non hai passione”. Ne “Gli anni spezzati”, si tenta di indulgere alla retorica un po’ meno dello stretto necessario. La strada è un’altra. Togliere polvere all’oblìo. Addentrarsi nelle sfumature, comprendere la forza brutale del dissidio interiore. Le barriere familiari, di linguaggio, di generazione. Il livore gratuito. L’equilibrio impossibile. L’incomunicabilità che come in “Colpire al cuore” di Amelio trascina a fondo “le vittime delle circostanze” condannando colpevoli e innocenti. Gli inganni della prospettiva: “Benvenuto nel mondo dei grandi” dice ancora Calabresi a una giovane recluta: “Il posto in cui i ladri sono spesso guardie mascherate”. In questo vorticare di specchi in cui il riverbero del dolore spazza via ragioni e convinzioni e in cui finire nella rete di un gioco più grande di sè che non mette premi in palio, è la regola, Diana si è affidato a volti che al copione hanno aggiunto il talento. Ne “Gli anni spezzati” ci sono prove distantissime dalla routine.

Un mazzo di bravi attori
Uno degli attori più sottovalutati d’Italia, Thomas Trabacchi (già Marco Nozza in “Romanzo di una strage” di Giordana), poliziotto di ferro e brusco comandante della celere. Non una smorfia in più. Alessio Boni, quadro dell’azienda fondata da Agnelli, vedovo e docente, sprofondato in un abisso esistenziale che ne cambia i tratti somatici restituendolo allo spettatore dimagrito, efebico, quasi irriconoscibile. Allucinato e incredulo: “Mia figlia spara nella scuola in cui insegno io”. Alessandro Preziosi che del Sossi originale conserva la ritrosìa modulando (e sorprendendo) con mano ferma rabbia, disgusto e sofferenza. Emilio Solfrizzi che ha tra tutti il ruolo più difficile si confronta suo malgrado con il commissario già messo in scena da Valerio Mastandrea. Pur essendo un’altra cosa e non sempre servito, quando non penalizzato dalla scrittura delle scene corali, trova in quelle in cui si muove da solo (circondato da uno spazio vuoto, ostile, grigio e atono) una dignità sobria e la cifra giusta per commuovere di sottrazione, rendendo omaggio all’umanità nascosta di Luigi Calabresi, alle sue debolezze, ai suoi dubbi e non al santino.

Donne, motori
e cortei in cravatta
Arrivare al risultato in dieci ore di film non era facile. E se l’ambiente risulta credibile e certi articoli di stampa, certi appelli vergati dagli intellettò e certe carezze da Linotype: “Vogliamo la morte dei nostri nemici” contrastano con la voce di Leonard Cohen che accompagna Suzanne sulle rive del fiume finendo per dare ragione più in là dei dibattimenti infiniti a quel che Giampiero Mughini disse a Jacopo Iacoboni: “Io contesto l’impudenza vergognosa degli ex di Lotta Continua che ancora oggi si mettono sul piedistallo dei presunti guru e continuano a volersi raccontare come se fossero stati una forma di innocuo francescanesimo scalzo”, se accade, si deve anche alla recitazione. Dei maschi al fronte senza divisa (molto bravo anche Enzo De Caro, terrorizzato primario ospedaliero costretto a dormire in astanteria) e delle donne che chiamate alla supplenza, salgono in cattedra dando lezioni di contegno e determinazione. Quando sono figlie disperate o smarrite (Giulia Michelini, intensa neoterrorista sulle orme del padre). Mogli furibonde (Stefania Rocca, diafana, bellissima nei panni di Grazia Sossi) o preoccupate (Luisa Ranieri, una Gemma Capra che intuisce l’importanza del trasferimento di Calabresi a Roma). Nonne comprensive con gli sbagli dell’età acerba (Paola Pitagora), bambine solo troppo piccole per inseguire un sogno (Arianna Jacchia, all’esordio, convincente sorella di Giulia Michelini ne “L’ingegnere”) o segretarie intimidite che davanti ai dubbi dei capi azienda: “Non si è mai visto un corteo di gente in cravatta”, si danno coraggio, sciolgono i propri e il 14 ottobre dell’80, insieme ad Alessio Boni, fendendo Torino, decidono di scegliere finalmente da che parte stare. In cammino, senza più sacchi davanti alle finestre, paure o opportunismi miserabili. In marcia, insieme a un fiume di persone che - dissero i testimoni con il grado di benevola approssimazione che si concede all’evento capace di rivoluzionare veramente (e per sempre) i rapporti di forza non solo nella Fiat - furono quarantamila. Da quel giorno, giurarono sollevati i sopravvissuti alla garrota aziendale e agli errori della politica e del sindacato (15.000 licenziati), non ci sarebbe più identificati con la fabbrica, ma “con il lavoro in fabbrica”. Allora parve un soffio di consapevolezza. Trent’anni dopo è quasi archeologia industriale, catena che si spezza, motore collettivo che non gira e che non girerà mai più.