Nello Scavo, Avvenire 15/12/2013, 15 dicembre 2013
LA LISTA DI BERGOGLIO - PUNTATA N. 1
Vestiva di bianco. Disse di chiamarsi Francesco. «Bergoglio ne ha salvati molti, più di quanto lui stesso possa ricordare», mi confidò poche ore dopo un suo vecchio amico. Era finito il tempo della dimenticanza.
Non restava che indagare. Raggiungere Buenos Aires e poi da lì risalire lungo il filo dei racconti che portano fino in Uruguay e in Paraguay, ripercorrendo le strade che portavano alla salvezza. E poi cercare ancora, scovando pezzi di vita strappati al boia: il sindacalista comunista, gli ex catechisti, il docente universitario, il magistrato, il giornalista ateo, gli sposini perseguitati perché a una vita agiata preferirono la quotidianità tra i più poveri, l’esponente politico o il teologo marxista. Alcuni vivono ancora in Argentina, molti non hanno mai smesso di sentirsi in esilio.
Eppure nessuno, a cominciare dall’entourage tutt’altro che ristretto delle amicizie fidate, proprio nessuno ha voluto indicare la pista giusta. Né il nipote, il gesuita padre José Luis Narvaja, che dirige a Buenos Aires il centro studi Thomas Falkner. Né Alicia Oliveira, magistrato e avvocato che da Bergoglio fu ripetutamente protetta. Né padre Juan Carlos Scannone, considerato il massimo teologo argentino vivente, che mi ha raccontato la propria storia rivelando come anche lui scampò alla persecuzione.
«Spiacente, ora tocca a te scoprire il resto della storia». Un atteggiamento sospetto. Come se ci fosse qualcosa da nascondere. Una congiura del silenzio per proteggere la simpatia nell’immagine pubblica di papa Francesco? Niente nomi. Neanche una traccia, né un mozzicone di verità che conducesse alla ’lista’ di padre Jorge. «Sono certo che potrà capire», rispondevano davanti alle insistenze.
Amano a mano che la ’lista’ si componeva di nomi, di riscontri, di testimonianze di audacia e scaltrezza da agente segreto, prendeva corpo la risposta a una domanda diventata ossessiva: «Perché gli amici di padre Jorge hanno voluto tacere, quando invece avrebbe dovuto stargli a cuore la divulgazione di una verità così stupefacente?».
Dall’alto dei suoi ottantuno anni, padre Scannone si limita a rispondere con un ’sì’ a un’ipotesi cervellotica che mi è balenata, ma che per la mia mentalità da cronista – assai diversa dalla logica meno impulsiva di uno storico – mi sembrava non avere alcun senso.
Glielo chiedo al termine della lunga conversazione in una saletta appartata nel Collegio di San Miguel, quello che fu il quartier generale delle temerarie operazioni clandestine. Abbiamo parlato delle ferite ancora aperte. Delle madri che ogni settimana procedono in una mesta via crucis verso Plaza de Mayo, delle nonne a conoscenza di bambini partoriti nei luridi corridoi delle prigioni e subito adottati da famiglie compromesse con il regime, mentre i genitori naturali venivano annientati. Abbiamo parlato di un’intera generazione archiviata in tredici lettere: desaparecidos.
Il ’sì’ proferito a fatica dall’anziano teologo gesuita risponde a quest’interrogativo: «Gli amici del papa tacciono per non suffragare il sospetto che, attraverso di essi, Bergoglio stia tentando di manipolare in suo favore i fatti risalenti agli anni della dittatura?».
Del resto per trent’anni l’allora provinciale dei gesuiti, poi vescovo ausiliare, infine arcivescovo di Buenos Aires e primate d’Argentina, aveva scelto il silenzio. Anche questo dice del modo di intendere la libertà che papa Francesco custodisce per sé e desidera per gli altri. A costo di rimetterci di persona.
A quei silenzi, tuttavia, sono grato. Perché quella che segue è la ricostruzione di una ricerca laboriosa, dei salvati da Bergoglio. La ’lista’ rimane largamente incompleta. La maggior parte di questi mancati desaparecidos s’è costruita un’esistenza la più normale possibile. Il male è stato lasciato fuori dalla porta. Ogni tanto bussa. Come in una terapia di disintossicazione collettiva, per decenni hanno provato a riempire il vuoto di quella follia con la vita, guadagnata giorno per giorno. Chi ringraziando la buona sorte per il sole che ancora sorge davanti ai propri occhi, chi maledicendo il senso di colpa per non essere finito con gli altri in fondo all’Atlantico.
A lungo lo hanno accusato di essersi voltato dall’altra parte, codardo e complice. Ma per lui testimoniano le voci della ’lista’, quelle che da queste pagine parlano attraverso gli incontri personali, le interviste, i documenti investigativi e le dichiarazioni rese alle commissioni d’inchiesta. Alcuni tra i «salvati da Bergoglio » hanno chiesto di non menzionare dove e in che modo sono avvenuti i nostri incontri. Altri hanno preferito rimandarci a ritagli di stampa e memorie scritte che abbiamo integrato con i riscontri annotati tra gli atti giudiziari. Per ragioni di privacy che il lettore potrà comprendere, vista la delicatezza dell’argomento, di alcune ricostruzioni non riportiamo le modalità, i luoghi e le date in cui ne siamo venuti a conoscenza.
Qualcuno le chiama ’gesta’. Altri, più evangelicamente, «opere buone». E sì che ci sarebbe ragione per raccontare di un Bergoglio sconosciuto, del coraggio di quelle notti incurante dei rastrellamenti. Di giornate trascorse tra breviario e posti di blocco, escogitando maniere per evitare i controlli, depistare la polizia, raggirare i generali. Per condurre sani e salvi di là del confine i ragazzi destinati agli scannatoi clandestini.
Un interrogativo resterà però senza una risposta esauriente. Quanti erano? Padre Miguel La Civita, uno della ’lista’, afferma di aver visto Bergoglio «aiutare molte persone a lasciare il paese». Non solo preti o seminaristi. «Al Colegio Máximo si presentavano diversi personaggi, soli o in piccoli gruppi, che stavano qualche giorno e poi scomparivano. Diceva: ’Vengono per un ritiro spirituale’. E gli esercizi duravano una settimana. Capii che si trattava di laici dissidenti che padre Jorge aiutava a scappare. Come? In qualsiasi modo e rischiando sempre tantissimo».
Ciascuno dei beneficiari della protezione di Bergoglio dice di aver personalmente assistito al salvataggio di almeno una ventina di altre persone. Le testimonianze talvolta riguardano lo stesso periodo di tempo, altre volte invece non sono sovrapponibili proprio perché relative ad anni lontani tra loro. A voler azzardare una stima prudenziale, si direbbe che padre Jorge abbia messo al sicuro più di un centinaio di persone. Decine, come vedremo, sono poi i salvati ’preventivamente’, cioè messi in guardia dal futuro papa prima che potessero finire sequestrati. E a questi si aggiungono quanti furono risparmiati ’a loro insaputa’ dal regime, perché, grazie alle manovre di padre Jorge, «scongiurando nuovi arresti si evitò – come ci raccontano in questo libro alcuni dei protagonisti – che nel corso degli interrogatori condotti sotto tortura potessero emergere altri nomi, che altrimenti oggi sarebbero annoverati nello sterminato elenco dei desaparecidos».
Spero vivamente che non risulti offensivo per l’interessato, ma la ’lista’ di Bergoglio sembra davvero più lunga «di quanto lui stesso possa ricordare».
CAPITOLO 1 - L’ARGENTINA SOTTO IL TALLONE DEI MILITARI -
Il potere delle Forze armate in Argentina culminò con il golpe del 24 marzo 1976. Con il pretesto di avviare un «Processo di riorganizzazione nazionale», una giunta militare depose la presidente Isabelita Perón, che era succeduta al marito, e con lei i governatori e i vicegovernatori. Il Congresso fu sciolto. I membri della Corte suprema rimossi, dal primo all’ultimo.
I militari vinsero la guerra, ma non cercavano la pace. Dichiararono lo stato d’assedio abrogando i diritti costituzionali, sospendendo le attività politiche e di associazione, proibendo i sindacati, sorvegliando i giornali, sequestrando militanti politici, attivisti sociali e guerriglieri. La tortura divenne la regola per ottenere informazioni, applicando il metodo della sistematica sparizione di massa per generare un clima di terrore. I centri clandestini di detenzione erano, fra l’altro, il motore di un perverso sistema di appropriazione dei neonati partoriti dalle detenute. La giunta era composta dai militari delle tre armi: Videla per l’Esercito, Massera per la Marina e Agosti per l’Aeronautica. Si avocò la facoltà di designare il presidente della nazione tra gli ufficiali non più in servizio attivo e i membri della Cal (Comisión de Asesoramiento Legislativo), nel rispetto della regola del ’quarto uomo’, per garantire una separazione fra militari e governo.
Nient’altro che uno specchietto per allodole. Un modo per far digerire anche ai più riluttanti nella comunità internazionale un colpo di stato che rivendicava una ’diversità argentina’ rispetto alle brutalità registrate nei paesi vicini. Fino al luglio del ’78 l’esercito impose alla presidenza il generale Videla, che nel 1981 fu rimpiazzato da Viola, cui seguì Galtieri e, nel 1982, Bignone. Volendo nascondere le reali intenzioni, i congiurati non stracciarono la Costituzione. La calpestarono. A parole la carta fondamentale restò in vigore. A una condizione: che non fosse in contrasto con le disposizioni per lo Statuto del Processo di riorganizzazione nazionale. Un controsenso che sulle prime non fu colto.
Tutto questo poté avvenire nell’afasia generale che aveva contagiato il paese. Una predisposizione al silenzio di massa, maturata dopo anni di insicurezza. «L’intervento dei militari nel 1976 era atteso, se non invocato da almeno una parte della società, che in essi riponeva la speranza di vedere risolte le tensioni e i conflitti sociali che l’incapacità dei precedenti governi non era riuscita a ricomporre. Benché fosse necessario intervenire in maniera energica, i militari senza dubbio andarono ben oltre quanto la stessa società si aspettasse», argomenta Marzia Rosti, docente di Storia dell’America Latina presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Milano nel suo Argentina, edito dal Mulino.
Il colpo di spugna contro la guerriglia ottenne risultati in pochi mesi. La disarticolazione delle organizzazioni sociali ebbe come conseguenza la sparizione di almeno 30.000 persone, l’appropriazione di oltre 500 figli di condannati a morte, la detenzione di migliaia di attivisti politici, l’esilio – approssimativamente – di due milioni di persone oltre ai 19.000 fucilati per strada.
Nel 1983 il regime si dissolse. Umiliati dalla sconfitta nella guerra contro il Regno Unito per la riconquista delle isole Falkland/Malvinas, i militari furono messi all’angolo sia dall’opinione pubblica nazionale, che li accusava di aver mandato al massacro centinaia di giovani soldati, sia da quella internazionale che finalmente seppe di che pasta erano fatti i generali e con quale barbarie la giunta aveva tenuto in pugno il paese.
Fu così che si cominciò a sussurrare di fosse comuni, di cimiteri con croci senza nome. Per la prima volta dai tempi dei conquistadores, una parola venuta dall’America Latina tornerà tra le pagine più nere della storia: desaparecidos. All’inizio si parlò di poche centinaia, ma in seguito alle investigazioni dei parenti degli ’scomparsi’ si è arrivati a una stima tutt’oggi considerata attendibile, benché per difetto: 30.000 chupados, ’risucchiati’ nell’abisso di un potere assoluto e spietato. Dall’aprile al dicembre 1985, presso la Corte federale di Buenos Aires, furono processati i militari di alto rango in quello che venne definito il juicio del siglo, il ’processo del secolo’ che avrebbe dovuto accompagnare la transizione verso la democrazia. L’intero subcontinente per giorni rimase incollato alle pagine dei giornali e dei notiziari di radio e tv. In tutto 900 ore di udienze, 833 testimoni e tre tonnellate di incartamenti portarono alla sentenza del 9 dicembre 1985. «Fu più lieve – ricorda ancora Marzia Rosti – rispetto sia alle richieste dell’accusa sia alle attese dell’opinione pubblica: all’ergastolo furono condannati solo Videla e Massera. Gran parte degli argentini erano convinti che i militari avrebbero scontato le rispettive pene e attese l’avvio dei processi ai militari di rango inferiore, ma la prospettiva di più di mille nuovi procedimenti, oltre a rendere l’idea delle dimensioni della tragedia, generò (fra il 1987 e il 1988) resistenze e tensioni fra i militari di grado inferiore, che rivendicarono il proprio ruolo di difensori della patria. Il timore di un nuovo golpe mise alla prova la fragile democrazia e dimostrò che le Forze armate, abituate a controllare le istituzioni dello stato sin dal 1930, non erano uscite di scena e incutevano ancora timore». Bisognerà approdare quasi al nuovo millennio perché nel Cono Sur, la regione di sei stati latinoamericani a sud del Tropico del Capricorno (Argentina, isole Falkland, Cile, Uruguay, Paraguay, Brasile), si intravedesse un barlume di giustizia vera. Molti processi sono ancora in corso.
LA PASSIONE SECONDO IL CAPITANO ASTIZ -
I cristiani ’non allineati’ entravano automaticamente nel mirino. Contro di essi la giunta militare aveva dispiegato i suoi uomini di punta, dai servizi segreti alle pattuglie paramilitari. Segno che Videla e i suoi potevano contare anche su omissioni e complicità all’interno della gerarchia ecclesiastica. La vicenda che qui riportiamo, quella del gruppo di Santa Cruz, mostra bene quale clima e quali pericoli minacciassero le comunità della chiesa argentina dall’esterno e dall’interno. È un esempio terribile dei rischi affrontati dalle persone protette da Bergoglio e dallo stesso provinciale dei gesuiti nello sforzo di sottrarre vite umane alla macchina repressiva. Una pagina buia, l’ennesima, dell’epoca del terrorismo di stato, che il cardinale Bergoglio affronterà nel corso della testimonianza (che pubblichiamo in Appendice) resa alla magistratura argentina nel 2010. Una spia riuscì, con diabolica abilità, a carpire la fiducia dei familiari dei desaparecidos che si riunivano nella parrocchia di Santa Cruz. Per tutti era Gustavo Niño, l’angelo biondo. Occhi azzurri come se ne vedono pochi da quelle parti, faccia da studente ben educato, cresciuto tra casa e chiesa. Raccontava di un fratello chupado anche lui in chissà quale macelleria governativa.
In parrocchia era d’abitudine riferirsi affettuosamente al bel Gustavo come al Rubito, il Biondino. Non era raro che sul sagrato o nel giardino di fianco alla chiesa Niño si soffermasse a chiacchierare con le mamme e con le suore. E queste, insieme alla paura per le sorti dei desaparecidos, condividevano con quel bravo ragazzo l’avversione per gli uomini della giunta militare. Prima di tornarsene a casa, el Rubito le incoraggiava a farsi forza. Infine, le salutava con un abbraccio e un bacetto sulla guancia.
Molto tempo dopo i fedeli di Santa Cruz avrebbero scoperto l’altra faccia del Rubito. La sua non era compassione. Quello era il bacio di Giuda, il segnale convenuto per indicare agli agenti segreti della Marina le persone da ’risucchiare’.
Il vero nome di Gustavo Niño era Alfredo Astiz, ufficiale della Marina militare argentina. Tra le sue vittime figurano due suore francesi, Léonie Duquet e Alice Dumont, delitto per il quale Astiz è già stato condannato a Parigi; una delle fondatrici delle Madri di Plaza de Mayo, Azucena Villaflor; il giornalista e scrittore Rodolfo Walsh, una delle voci più lucide nel denunciare le storture dell’assurdo Processo di riorganizzazione nazionale.
In una delle sue apparizioni in tribunale, l’ex capitano di fregata si è fatto teatralmente riprendere mentre leggeva un libro dal titolo Tornare a uccidere. L’ennesima provocazione.
Al tempo della dittatura aveva una missione: ridurre al silenzio quella parte di chiesa che aveva scelto di non genuflettersi alle divise dei generali. Qualche mese dopo il golpe del 1976, Astiz riuscì ad accreditarsi nel gruppo di Santa Cruz, la bella chiesa di Buenos Aires che la giunta riteneva un covo di sovversivi. La firma di Gustavo Niño figurò addirittura nella petizione in cui si reclamava la libertà di alcuni detenuti che le organizzazioni di diritti umani avevano fatto pubblicare sul quotidiano La Nación il 10 dicembre 1977. Era Niño ad accompagnare gli attivisti alle riunioni che si tenevano a Santa Cruz, nel quartiere semicentrale di San Cristóbal. Del biondo Gustavo si fidavano a tal punto da affidargli i boy scout della parrocchia. Una parte recitata con cinica abilità. Il profilo dell’angelo sterminatore è stato efficacemente riassunto dalla Corte di cassazione di Roma nella sentenza con la quale l’ufficiale argentino è stato condannato per la scomparsa di tre emigrati italiani: «Il tenente Astiz, esercitando proprie funzioni di comando nei confronti dei graduati e dei militari sottoposti e di collaborazione direttiva con ufficiali superiori nel Grupo de Tareas 3.3.2 [’gruppi di lavoro’ era il nome in gergo delle squadre di sequestratori della dittatura militare argentina, ndr], concorse con piena consapevolezza nella compartecipazione delittuosa del mantenimento della gestione della prigione clandestina ove furono segregate le tre vittime in costanza della loro prigionia». El Rubito ha dato di sé una descrizione piuttosto fedele. Un trucco, anche questo, per giustificarsi di ogni crimine commesso. Come se l’addestramento ricevuto lo avesse espropriato della sua coscienza. «Io dico che a me l’Armada ha insegnato a distruggere. Non mi hanno insegnato a costruire, mi hanno insegnato a distruggere. So come usare mine e bombe, so infiltrarmi, so disarmare un’organizzazione, so uccidere. Tutto questo lo so fare bene. Io dico sempre: sono un bruto, ma ho compiuto un solo atto lucido nella mia vita, che fu quello di arruolarmi nell’Armada ». C’è del vero. Ma, a rileggere bene, non è difficile intravedere la doppiezza di Alfredo-Gustavo. Come se, una volta indossata la divisa, fosse stato spogliato della sua umanità. Un automa: così avrebbe voluto passare alla storia.
La messa in scena non ha funzionato. Nonostante le protezioni, le norme sull’immunità fortunatamente soppresse, i tentativi di inquinare i processi, el Rubito non è scampato all’ergastolo per ordine del Tribunale di Buenos Aires.
La giustizia italiana ricorda che «la struttura carceraria criminale annoverava, infatti, tra gli scopi istituzionali quello – effettivamente realizzato in danno di una rilevante percentuale dei prigionieri, determinata in ragione del 20% – della soppressione in segreto dei sequestrati che i carcerieri avessero reputato non recuperabili all’obbedienza del regime dittatoriale. L’imputato, peraltro, confidò a una testimone che alle esecuzioni capitali (mediante lancio da aeromobili in volo da alta quota sull’Oceano Atlantico) si faceva talvolta ricorso anche per necessità di sfollamento, quando il carcere non disponeva della capienza necessaria per ricevere nuovi prigionieri ».
Alla vigilia di Natale del 1977 la giunta decise che le ’sovversive’ di Santa Cruz (si trattava in maggioranza di donne) andavano eliminate. Erano un cattivo esempio per le altre comunità cattoliche. Il catto-nazismo di Videla e compagni non poteva permettersi smottamenti. Il doppio gioco di Astiz-Niño era rimasto in piedi per troppo tempo. Da un momento all’altro avrebbe potuto perdere la maschera e soprattutto far capire ai gruppi di attivisti di tutto il paese che il regime aveva infiltrati dappertutto. Una volta aveva rischiato più del dovuto. Nella concitata mattina del 26 gennaio 1977 il Grupo de Tareas 3.3.2 arrestò Norma Burgos, moglie di un alto dirigente dei Montoneros. La squadra di militari comandata da Astiz rimase nascosta nell’abitazione della Burgos per attendere l’arrivo, previsto per il giorno successivo, di María Berger, un’altra leader montonera. Alle 8,30 del mattino Dagmar Hagelin, una ragazza svedese di 17 anni, amica di Norma, passò a casa sua per salutarla. Alta, bionda, occhi azzurri. Quelli del Grupo pensarono si trattasse della Berger. Appena la diciassettenne entrò in giardino, Astiz e i suoi le saltarono addosso, armi in pugno. Ma Dagmar reagì d’istinto. Atleta ben allenata, fece uno scatto bruciante e scappò fuori nella via. Astiz e un caporale di nome Peralta le corsero dietro. Le gridarono di fermarsi. La volevano viva. Per interrogarla, certo. Con i loro metodi. Dagmar Hagelin correva più forte della paura. Non aveva niente da nascondere, ma intuiva cosa le sarebbe capitato se non fosse riuscita a seminarli.
Dagmar guadagnava metri, ma gli ufficiali erano armati. El Rubito la colpì di striscio alla testa e la ragazza cadde malamente sul selciato. I militari fermarono un taxi e gettarono la svedese nel bagagliaio. Dagmar Hagelin, come riferiranno in seguito alcuni testimoni oculari, sanguinava ma era viva e cosciente. Tentò, con le poche forze rimaste, di impedire la chiusura del portellone. Fu vista viva all’Esma. Dal marzo 1977 non si hanno più sue notizie.
In seguito a quell’azione, quindi, Astiz cercò di non dare nell’occhio. Nel bel mezzo dell’Avvento 1977, il Grupo de Tareas 3.3.2 passò all’azione contro la parrocchia di Santa Cruz. Sequestrarono l’intera ’banda’: Azucena Villaflor, Esther Ballestrino, María Ponce (le tre fondatrici delle Madri di Plaza de Mayo), le suore francesi Alice Dumont e Léonie Duquet, gli attivisti per i diritti umani Angela Auad, Remo Berardo, Horacio Elbert, José Fondevilla, Eduardo Horane, Raquel Bulit e Patricia Oviedo.
Tra l’8 e il 10 dicembre 1977 furono ’risucchiate’ una decina di persone collegate alle Madres de Plaza de Mayo. Azucena Villaflor fu trascinata via mentre si affrettava a raggiungere l’edicola per comprare un numero della Nación che quel giorno pubblicava l’appello alle istituzioni: «Por una Navidad en paz solo pedimos verdad» («Chiediamo verità per un Natale di pace»).
Durante quell’operazione Astiz continuò a recitare la sua parte nella comunità, abbracciando e baciando le ’sovversive’ sfuggite alla prima retata. Poi di lui non si seppe più nulla. Il serpente era riuscito nel suo compito. Tanto che il nome di Gustavo Niño figurerà per anni nell’elenco degli scomparsi.
Lisandro Raúl Cubas, un ex detenuto nel carcere clandestino all’interno della Scuola superiore di meccanica della Marina (Esma), ha raccontato alla Conadep che «anche nei più acuti momenti di dolore, suor Alice [Dumont, nda], che si trovava nella capucha [una specie di gabbia buia e senza finestre nella quale venivano gettati i detenuti dell’Esma destinati all’isolamento, nda], voleva informarsi sulla sorte dei compagni e, colmo dell’ironia, in modo particolare del Biondino, che altri non era se non il capitano di fregata Astiz».
A quanto risulta, l’intero gruppo di Santa Cruz fu sterminato. Dopo il macabro campionario di torture, le vittime vennero eliminate con un volo della morte. Alla fine del 1977 alcuni corpi furono ritrovati lungo una spiaggia e seppelliti in tutta fretta con la dicitura N.N. nel cimitero di General Lavalle, trecento chilometri a sud di Buenos Aires, in una sperduta radura nell’entroterra della baia di Samborombón. Anni dopo, cinque vittime saranno identificate e sepolte nel giardino della chiesa.
VITA DA CHUPADO -
All’epoca della dittatura, «X96» era un tecnico della Commissione nazionale energia atomica. Fu rapito nel 1977 e i boia dell’Esma cercarono di sfruttare le sue conoscenze di fisica per migliorare i metodi di tortura. «X96» ha vissuto quattro anni da chupado, ’risucchiato’ dalla macchina repressiva. È tra i pochi ad aver potuto raccontare, da vivo, cosa voleva dire essere desaparecido.
Il suo nome da essere umano era Mario Villani. «Dal momento in cui venivi rapito diventavi un desaparecido, smettevi cioè di esistere da un giorno all’altro per la tua famiglia, per i tuoi amici e per i tuoi compagni di lavoro».
«Sono stato sequestrato la mattina del 18 novembre 1977. Sono stato detenuto in cinque centri clandestini di detenzione: il Club atlético, il Banco, l’Olimpo, la División Cuatrerismo de Quilmes e l’Esma», ha raccontato come testimone nel processo al generale Guillermo Suárez Mason.
Il copione era già scritto: «Desaparición-tortura-morte. La maggioranza dei desaparecidos trascorrevano giorno e notte incappucciati, incatenati e con gli occhi bendati in una cella tanto stretta da essere chiamata ’tubo’».
Dal tubo si usciva per andare dal ’chirurgo’. Niente a che fare con l’assistenza sanitaria. Quando si lasciava la ’sala operatoria’, in effetti la stanza puzzava di sangue rappreso e di disinfettante. Il ’chirurgo’ era il torturatore. Dopo si finiva tra i trasladados, i ’trasferiti’. Una liberazione: il plotone di esecuzione avrebbe messo fine al dolore.
«Oltre alla tortura fisica sofferta durante gli interrogatori, la vita nei Centri era una continua tortura psicologica. Il trattamento giornaliero – rammenta Villani – era estremamente umiliante. Quando entravi ti assegnavano un codice (il mio era X96) che dovevamo utilizzare anche per chiamarci tra detenuti».
«Verso la fine del 1978 mi trovavo al Garage Olimpo, uno dei centri di detenzione clandestina, e in due occasioni comparve il generale Suárez Mason. Io lavoravo nel laboratorio di elettronica che mi avevano fatto allestire per riparare gli elettrodomestici che arrivavano dai saccheggi, che loro chiamavano ’bottino di guerra’, nelle case dei sequestrati. Quando Suárez Mason entrò nel laboratorio voleva sapere due cose. Prima di tutto come localizzare le interferenze televisive che stavano facendo i Montoneros, poi come poteva lui stesso produrre interferenze simili. Sebbene la risposta fosse abbastanza semplice, gli resi tutto molto complicato, tanto che rinunciò a tutti i progetti. Nel gennaio del 1979 venne deciso di svuotare l’Olimpo ’trasferendo’ circa cento persone. Io insieme ad altri otto detenuti fui trasferito al Divisió n Cuatrerismo de Quilmes». X96 fu tra i pochi a sopravvivere a quel genere di ’trasferimento’.
La cosa peggiore per un prigioniero era apprendere che anche la moglie, una figlia o una sorella erano state arrestate. Molti dei chupados hanno raccontato di essere stati tormentati durante gli interrogatori da ufficiali che raccontavano come poco prima se l’erano spassata violentando le loro congiunte. Le donne non avevano altra scelta: «Non fare storie o ammazziamo tuo marito». Poi, di tanto in tanto, i militari consentivano alle coppie di detenuti di incontrarsi per un colloquio. Ai mariti non servivano troppe domande per capire che era tutto vero. Di solito questo bastava per ottenere una qualche forma di collaborazione per scongiurare altri stupri. Tanto all’Esma ogni sera veniva portata qualche nuova coppia di innamorati.
LA FABBRICA DEI GENITORI
«Non tagliare il cordone, non tagliarlo!» Non erano lacrime di gioia. E non era il dolore del parto a farla disperare. Il neonato stretto al petto, ancora sporco di sangue. Urlò ancora una volta con tutto il fiato che le era rimasto. «Non portare via il mio bimbo!». Finì come doveva finire. Sara Solarz de Osatinsky lo ha raccontato in qualità di testimone in uno dei processi ai vertici delle Forze armate. Descrisse l’inferno della escuela, e di come i bambini venissero sottratti alle mamme.
La testimonianza di Sara è stata decisiva per poter condannare, trent’anni dopo i fatti, l’ufficiale di Marina Jorge Acosta, detto ’el Tigre’, e con lui il tenente Alfredo Astiz, l’’angelo biondo’ che si era infiltrato tra gli attivisti della parrocchia di Santa Cruz, a Buenos Aires.
Moglie di un esponente delle Forze armate rivoluzionarie fatto eliminare dalla giunta, madre di due figli uccisi all’età di 15 e 18 anni, Solarz de Osatinsky era stata sequestrata per strada. Prima di venire gettata in una cella dell’Esma l’avevano spogliata e picchiata. Una volta entrati nei centri di tortura, raramente si poteva uscirne vivi. Si calcola che nella sola Esma, il lager simbolo della dittatura, siano entrate circa cinquemila persone. Solo duecento hanno potuto rivedere la luce del giorno.
«Era come una grande cassa da morto – disse Solarz al processo, descrivendo l’inferno dell’isolamento femminile –. Era tutta di legno. Lo spazio tra il soffitto e il pavimento era tale che eravamo obbligate a stare sdraiate. In mezzo a tutto questo c’era una ragazza col pancione. Tempo dopo ho saputo che si chiamava Ana Rubel de Castro. Quando diede alla luce il suo bimbo, la stanza delle partorienti non c’era ancora. Il neonato lo avevano portato via subito. Lei continuava a chiedermi se aveva qualche segno particolare per riconoscerlo quando sarebbe uscita». Sono passati quasi quarant’anni. Ana e il suo bambino sono desaparecidos. Lei ammazzata chissà dove. Il bambino adottato per ordini superiori.
Con turpe ironia, i militari soprannominarono la stanza delle partorienti dell’Esma ’piccola Sarda’. La ’Maternidad Sarda’, infatti, era il noto ospedale pubblico di Buenos Aires. Le donne in stato di gravidanza venivano deportate nell’Esma dai centri di detenzione di altri distretti del paese. Sara non era un’ostetrica, ma aiutò quindici sventurate a mettere al mondo bambini che non avrebbero mai più visto e che non avrebbero mai saputo dei loro veri genitori. «C’erano quattro letti. La prima volta ci andai con Maria Pichona. Voleva che le stessi vicina. Si sentiva il rumore delle catene misto al pianto del bimbo appena nato. Quando portarono via il bambino, cominciò a gridare». Non poteva fare altro: «Perché non mi lasciano stare con il mio piccino? Perché?».
Grazie a questa testimonianza e all’ostinazione delle Abuelas (le Nonne di Plaza de Mayo), 150 di questi piccoli, per lo più adottati da famiglie di militari senza figli, hanno riacquistato la loro vera identità. All’appello ne mancano almeno 400. Victoria Donda Pérez, almeno lei, è riuscita a ricostruire la vicenda della sua vera famiglia. È nata all’Esma, dove i genitori furono torturati e uccisi. La madre fu messa a tacere dopo il parto, sotto gli occhi di uno zio, membro della polizia segreta, poi finito sotto processo. Prima di essere portata al patibolo, la donna riuscì a bucare i lobi delle orecchie della neonata e a farci passare un filo blu. Un segno di riconoscimento. Victoria venne adottata da una famiglia di militari che la ribattezzò con il nome di Analía. La ragazza scoprirà la sua vera identità solo ventisette anni dopo, grazie a una testimonianza anonima e alle Nonne di Plaza de Mayo. «Nella mia storia – spiegò Victoria presenziando al processo contro lo zio – ci sono stati momenti dolorosi. Il peggiore è stato quando ho capito di essere figlia di desaparecidos, e che il fratello di mio padre era presente quando torturavano mia madre». Questa era l’Argentina di Jorge Mario Bergoglio, diventato nel 1973 provinciale dei gesuiti. Un labirinto di specchi deformati nel quale tutti dovevano sospettare di ciascuno e non sembrava esserci uscita. Un paese finito nelle peggiori mani, che proliferava di doppiogiochisti e carrieristi dell’ultima ora. Il colpo di stato degli uomini in grigioverde aveva rimescolato le carte, facendo assurgere a ruoli di potere figure insignificanti. Ladri, ex galeotti, rubagalline e spacconi del sabato sera. Per tanti fu come guadagnarsi un condono. L’occasione attesa per conquistare una certa rispettabilità. Uno di quei momenti nei quali si possono sgombrare le macerie di vite sbagliate. Bisognava solo accodarsi al plotone, mai marciare in direzione contraria. Per molti bastò solo cambiarsi d’abito per continuare a rubare, picchiare, stuprare. Una divisa vestì i balordi da uomini di stato. Era da questa gente che bisognava guardarsi. Ma per salvare vite innocenti era con questa gente che bisognava avere a che fare.
(1 - continua il 18 dicembre)