Alessandro Wagner, Milano Finanza 14/12/2013, 14 dicembre 2013
IL MIRACOLO DI SAN REMO
A vederlo così, sempre sorridente, sicuro di sé ma mai aggressivo, pacifico al punto da sfiorare il pacioso, nessuno sospetterebbe che Remo Ruffini il servizio militare non lo ha fatto da imboscato ma da granatiere. Il dettaglio torna, se si guarda la storia di Ruffini in Moncler: quanti altri marchi e quante altre aziende sono cresciuti a quel ritmo, cioè in dieci anni hanno moltiplicato per 10 il giro d’affari e per 100 il valore? Ruffini c’è riuscito: nel 2003, quando acquisì il controllo di Moncler, di cui era già direttore creativo, il valore dell’azienda fu determinato in 30 milioni di euro (e diversi aspetti lasciano pensare che si sia trattato di un valore congruo).
Mercoledì 11 dicembre, con la chiusura dell’ipo e l’indicazione del prezzo al valore più alto della forchetta di 8,75-10,2 euro per azione, Moncler è stata valutata 2,55 miliardi; e che valga di più e arrivi velocemente a quota 3 miliardi di capitalizzazione gli analisti hanno già iniziato a pronosticarlo (per esempio, Kepler indica in 12 euro il valore dell’azione, il che equivale appunto a 3 miliardi di capitalizzazione). Ma in occasione dell’ipo, come noto, Ruffini non ha venduto: ha monetizzato parte del valore grazie Tip, che insieme con altri investitori gli ha staccato un assegno di 103 milioni per entrare nella finanziaria in cui l’imprenditore custodisce il proprio 32% di Moncler. E ora è il primo azionista del brand, con il potere di nominare quattro consiglieri più due indipendenti su 11 membri del cda: per Ruffini insomma la borsa è un punto di partenza, non di arrivo.
In questa prospettiva quel che è interessante ricostruire di Ruffini è perché un giorno di dieci anni fa ha deciso di diventare mister Moncler dopo essere stato nei 18 anni precedenti molto più semplicemente il signor New England, marchio di camicieria al top della notorietà negli anni 90: che non suonerà come mister Moncler, ma certo era pure quella una bella storia. L’avventura imprenditorial-fashion di Ruffini, comasco doc conquistato dallo stile Martha’s Vineyard e dall’eleganza décontracté di JFK, insomma dal lifestyle dell’America benestante e illuminata, comincia infatti nell’84, a 23 anni, dopo un anno passato a New York con il padre, di cui è anche figlio d’arte: Ruffini senior («Un matto che mi piaceva moltissimo», per dirla con le parole del figlio) era andato negli Usa a vendere, con successo, camicie stampate. Così a New York, dopo un anno di studi soprattutto sul campo, il futuro mister Moncler mette a punto la sua idea di eleganza sportiva applicata alla camiceria ed è pronto a debuttare con un proprio marchio, innovativo nello stile e nei tessuti: nella camiceria è stato probabilmente il primo in Italia a utilizzare tessuti sovra-tinti e a prestare attenzione a nuove vestibilità che fossero al contempo più sciolte e più eleganti. Il successo arriva subito, all’inizio più sul mercato americano che su quello italiano; poi, alla fine degli anni 90, New England finisce nella neocostituita Interpool, di cui in un primo tempo Ruffini è anche azionista assieme a Stefanel e altri industriali dell’abbigliamento e che riunisce anche i brand Island, Museum e Peter Hadley, tutti marchi dal sapore un po’ New England.
Ma Ruffini a questo punto freme. Quel che poteva dare con la camicieria lo ha dato, comincia a usare i suoi talenti di creativo, con un qualcosa in più di un normale creativo: la capacità di lavorare sul brand. E comincia a mettere a fuoco il suo sogno: quello di un brand globale, di un prodotto di abbigliamento globale che tutti vogliano indossare. L’anno della svolta, o meglio della prima svolta, è il 2000, quando approda in Moncler come direttore creativo. Il marchio, dopo i fasti degli anni 80 grazie al fenomeno dei paninari, era un po’ passato di moda, mentre sul fronte del core business e dell’anima originari, quello legato allo sci e alla montagna, aveva perso appeal e aficionados. Ed era stato rilevato dalla Fin.Part di Gianluigi Facchini, il finanziere che aveva riunito sotto il proprio ombrello numerosi marchi e aziende fra cui la ex Pepper (oggi Industries), Frette e la maison Nino Cerruti. La parabola di Fin.Part però durò poco e finì male, con la dichiarazione di fallimento firmata il 5 ottobre 2005 dal giudice Bartolomeo Quatraro. Ma da due anni il controllo di Moncler era stato rilevato da Ruffini, dopo la decisione di Facchini di cominciare a vendere qualcosa perché i conti del gruppo andavano male. Ed è in quegli anni che si crea uno dei sodalizi più proficui che la storia della moda italiana ricordi, quello fra Ruffini e Guido De Vivo, uomo di finanza che in quel momento guida la Mittel. Le avventure sull’ottovolante del fallimento Fin.Part di Ruffini e De Vivo potrebbero riempire un libro, ma qui basti ricordare che assieme, coinvolgendo anche altri investitori, i due riescono a salvare dal disastro Fin.Part anche la Pepper e i marchi che c’erano dentro, ovvero Marina Yachting, Henry Cotton’s, la licenza della linea di Cerruti denominata 18CRR81 e il brand di ricerca Coast+Weber+Ahaus, che è poi la somma di tre marchi di maglieria, pantaloni e camiceria. L’operazione va in porto e cementa un legame fra i due che rappresenta un ingrediente forse decisivo del successivo successo di Moncler e del valore che Ruffini ha saputo creare: De Vivo governa la complessa finanza di quegli anni e controlla i numeri, Ruffini fa diventare grande il brand. Il tutto con una strategia che fa leva sulle origini del marchio, sul calore che è in grado di sprigionare, ancor prima del prodotto, già solo quell’heritage, straordinario e irripetibile come può essere solo il passato di chi ha iniziato per primo.
Così comincia la conquista del cliente globale. Così il legame quasi eroico, romantico del brand con le montagne innevate e con l’eleganza del grande freddo è al centro di ogni declinazione delle campagne pubblicitarie. Ma intanto il prodotto si differenzia in alto e in basso; nascono le collezioni deluxe Moncler Gamme Rouge e Moncler Gamme Bleu, disegnate da stilisti di primo piano e di grande energia creativa come Alessandra Facchinetti, Thom Browne e Giambattista Valli, che sfilano a Milano e a Parigi; gli sciatori hanno la loro Moncler Grenoble ma anche più di un modello delle varie linee della main collection; inizia la costruzione di un total look indispensabile per avviare l’avventura dei monomarca, dove sarebbe stato ben triste vendere solo piumini, magari sconfinando in altre stagioni diverse dall’inverno e in altre discipline sportive diverse dallo sci. Ma senza mai diventare, almeno nell’immagine, urbani. E questo lavoro sul brand e sulle collezioni, ostinato, costante, dentro a un solco chiaro e netto ma in continuo rinnovamento, ha finito per produrre un miracolo che forse non ha altri esempi nel mondo dell’abbigliamento e della moda: il brand diventa il prediletto di persone e di mondi che non dovrebbero avere e in effetti non hanno null’altro a che spartire. Celebrità di Hollywood e studentesse di provincia, signore chic di Via Montenapoleone o di New Bond Street e skater randagi di periferia, tutti si sentono a loro agio e spesso addirittura quasi orgogliosi del loro Moncler. Naturalmente alle spalle, prima ancora di una strategia riuscita e di una gestione eccellente, c’è un grande sogno, che Ruffini agli inizi dell’avventura raccontava così: «Un giorno mi piacerebbe che anziché piumino si dicesse Moncler, come quando chiedi una biro e dici: Mi passi una Bic?». Chissà... è un granatiere, magari ci riuscirà.