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 2013  dicembre 14 Sabato calendario

QUANDO IL FUTURO ENTRA TUTTO IN UNA VALIGIA


Quando mi presentai, lei mi guardò in tralice, diffidente e annoiata, come l’adolescente che era. Mi metteva una gran soggezione, anche se era più giovane e più minuta di me. Era piccola e coriacea, già allora. Emanava una forza ribelle e indomita, dietro un’apparenza angelica. «Se conquisto lei, è fatta», pensai, consapevole di quanto il mio obiettivo fosse arduo e ambizioso.
Da allora sono passati vent’anni. Lei, che sarebbe diventata mia cognata, nonché colei che i miei figli definiscono «la zia matta», è diventata grande, come succede a tutti. Appartiene alla generazione dei precari, di quelli che il lavoro se lo devono inventare perché nessuno glielo offrirà mai prêt-à-porter, di quelli che un figlio non se lo possono permettere, anche se il ticchettio dell’orologio biologico si fa assordante, di quelli per cui il sostantivo pensione è sinonimo di alberghetto e nient’altro.
Come molti ha studiato, ha lavorato gratis, è partita, è ritornata, si è innamorata, ha detto sì a proposte professionali improbabili, si è scoraggiata, si è rimboccata le maniche, si è divertita, si è preoccupata e si è avvilita. Dritta per la sua strada, svagata, incosciente, determinata, inarrestabile, dura e impavida.
A un certo punto si è sposata, con un sociologo guatemalteco ché un cartografo di Bitonto o un bibliotecario di Concorezzo sembravano forse soggetti ordinari e prevedibili per una con la nomea di zia matta.
«Parto», ha detto quest’estate. «Di nuovo?». «Questa volta non torno. Emigro», ha annunciato, da dietro la sua scorza infrangibile. «E dove emigri?». «In Salvador. Il sociologo guatemalteco ha già trovato lavoro. Io lo sto cercando e lo troverò presto».
Così è partita, i capelli biondi freschi di parrucchiere, una valigia ben più grande e pesante di lei, il sorriso spavaldo d’ordinanza e lo sguardo insolitamente liquido. È stato straziante, anche se non andava in guerra, anche se tutti quanti facevamo finta che stesse partendo per una vacanza a Ibiza, anche se ci sono Skype e la posta elettronica che rimpiccioliscono il mondo.
È sempre difficile, e sempre più frequente, lasciare andare le persone a cui vogliamo bene, anche se sappiamo che altrove troveranno quel che cercano, anche se laggiù li immaginiamo felici e realizzati, anche se forse, se fossimo più coraggiosi, avventurieri e intraprendenti, anche noi avremmo voluto o vorremmo prendere il volo.
Salutando la zia matta, guardando gli occhialoni neri dietro cui si nascondeva mia suocera, ascoltando i «ciao» ruvidi e rotti dei maschi di famiglia, mi sono resa conto che siamo in tanti, su queste barche piene di chi dice «ehi, emigro. Ci vedremo a Natale, forse» e di chi resta, chiedendosi se tutto questo abbia un senso. Ho pensato che, se le distanze si accorciano, i nostri orizzonti devono ampliarsi. Mi sono rassegnata a un destino di probabili «ciao», dietro occhialoni neri.
Perché la probabilità che anche i nostri figli, come la zia matta, un giorno prendano il volo, è elevatissima. Perché li vogliamo aperti, curiosi, poliglotti e coraggiosi. Perché non vogliamo che mettano confini alla loro realizzazione e alla loro felicità. Perché insegniamo loro da piccoli che il mondo è nelle loro mani e alla portata dei loro sogni.
E quindi non dovremo stupirci quando si presenteranno armati di una valigia più grande di loro, pronti a partire, anche se a me, personalmente, la sola immagine di quei tre che ora nuotano nella cesta dei giochi e domani mi dicono «ciao, mamma, emigro», fa venire la tachicardia, la gastrite e la gola secca. E quindi sarà nostro dovere sorridere, incoraggiarli, spingerli fuori dal nido e ancora più in là, ovunque possano diventare quel che desiderano. Ho qualche anno per abituarmici, per crederci sul serio, per fare training autogeno e, magari, preparare anche io le mie valigie.