Luca Miele, Avvenire 15/12/2013, 15 dicembre 2013
MANI SULL’AFRICA, AFFARI A SENSO UNICO
Il nome è accattivante, di quelli che riscuotono un immediato consenso: «Speranza». Il Project Hope China, che tra il 2008 e il 2011 ha costruito 17.900 scuole nelle aree più povere della Cina, ha deciso di fare il grande salto: sbarcare in Africa. La missione resta la stessa: costruire scuole. Racconta Yan Shi, vice direttore del progetto: «Molte delle scuole rurali che abbiamo visitato in Africa sono fatte di fango e sterco. In Kenya ne abbiamo vista una senza mura: aveva solo una lavagna con alcune pietre che fungevano da sedie per i bambini ». L’impegno, fa capireYan Shi, è enorme. Ma la struttura di Project Hope China offre informazioni preziose sul tipo di “conquista” che il Dragone sta mettendo in atto nel Continente nero. Il progetto è il risultato della partnership tra una Ong, la China Youth Development Foundation e La Lega della gioventù comunista cinese. Insomma da una parte un braccio della società civile, dall’altra la lunga mano del Partito comunista.
Non si tratta di un caso isolato. Dal 2011, grazie ai 3,5 miliardi di dollari raccolti dalla Wecba – sigla che raccoglie le 500 principali aziende del Dragone –, sono state costruite 17 scuole in Tanzania, Kenya and Burundi. La Croce Rossa cinese ha, da parte sua, destinato 30 milioni di yuan (4,85 milioni di dollari) per la costruzione di centri sanitari. Il Dragone, come si legge sul Libro bianco per l’Africa, ha inviato 43 squadre mediche in 42 Paesi africani, trattando oltre 5.570.000 pazienti. Nel Continente nero operano almeno 100 organizzazioni non governative.
Cosa fanno davvero le Ong cinesi in Africa? Si tratta sul serio di sola filantropia? O esse sono, piuttosto, una delle braccia con cui la Cina sta stringendo – stritolando, secondo alcuni – il Continente? Una cosa è certa: la Cina sta giocando la sua partita geopolitica in giro per il mondo. E l’Africa occupa un posto privilegiato. Una conquista “soft”, messa a segno a colpi di contratti miliardari, nella quale si agita un mix pericoloso fatto di caccia alle risorse naturali, mega lavori (spesso poco rispettosi dell’ambiente), scambi commerciali (con tanto di invasione di prodotti cinesi sui mercati africani). Un modello che lascia, secondo molti, solo briciole agli africani. Con tanto di dichiarazione di principio: la sovranità dei Paesi con i quali Pechino interagisce non si tocca. In questa strategia c’è un perno assoluto: il petrolio.
La Cina è un gigante affamato. E insaziabile. Anche se nell’ultimo biennio si sono registrati timidi segnali di rallentamento, la corsa della sua economia è stata sbalorditiva: tra il 2000 e il 2011 il Dragone è cresciuto con un tasso del 10% all’anno. Una corsa che deve essere alimentata. Secondo il World Energy Outlook 2013, la Cina è destinata a diventare il principale importatore mondiale di petrolio. Già oggi acquista 5,5 milioni di barili al giorno: 1,2 milioni arrivano dall’Africa. Attorno al 2030 il Paese sorpasserà gli Stati Unti come maggior consumatore di oro nero. Il gigante asiatico, secondo le ultime stime, importerà il 60% del proprio fabbisogno energetico.
Una fame che ha in qualche modo dettato la politica estera cinese. La “brama” si soddisfa con il petrolio e le materie prime, ma il petrolio si acquista “ramificandosi” nei Paesi produttori. E il modo più sicuro per innervarsi è fare affari. Un sistema per sottrarre zone all’influenza di altri attori. Non è un caso che la Cina ha scalzato gli Usa nel 2010 come primo partner commerciale dell’Africa. Gli scambi commerciali tra Cina e Africa hanno superato il miliardo di dollari nel 1990, dieci anni più tardi la quota è balzata a 10 miliardi nel 2000, a 150 miliardi nel 2011. In un decennio la crescita è stata di 15 volte. Mentre il commercio cinese (esportazioni e importazioni) con il mondo è aumentato di otto volte nel decennio 2000-2010, nello stesso periodo è aumentato più di 11 volte per quanto riguarda l’Africa. Stesso discorso per gli investimenti cinesi nel Continente, investimenti che offrono lo specchio reale della penetrazione cinese. Dal 2009 al 2012, gli investimenti diretti sono passati da 1,44 miliardi a 2,52 miliardi, con un tasso di crescita annuale del 20,5%. Nel 2012, le imprese cinesi hanno completato contratti di costruzione del valore di 40,83 miliardi di dollari, con un incremento del 45% rispetto al 2009. Quanto l’Africa conti nell’agenda cinese lo testimonia la geografia dei viaggi del neo presidente cinese Xi Jinping. Nel suo primo tour africano, lo scorso marzo, il presidente ha reso nota la decisione di estendere all’Africa una linea di credito di 20 miliardi di dollari. Il Dragone cerca di mostrare il suo volto buono. Come vanta il quotidiano Global Times, dalla presenza cinese «l’Africa sta ottenendo enormi benefici». In Zambia, Nigeria, Egitto ed Etiopia, la Cina ha investito più di 250 milioni di dollari. Secondo le statistiche pubblicate dallo Zambia, gli investimenti cinesi hanno contribuito alla creazione di 15mila posti di lavoro. Secondo quanto affermato da Liu Guijin, inviato speciale della Cina per gli affari africani. Pechino è diventata il maggior investitore in Uganda, creando più di 5.500 posti, grazie a 32 progetti.