Niccolò Zancan, La Stampa 14/12/2013, 14 dicembre 2013
IN 40 ANNI DA UNA STALLA A DIECI BAR
I sette fratelli Liparulo facevano colazione con latte appena munto. Ogni mattina andavano a riempire un bottiglione dall’altra parte della strada. Prima di uscire, Giuseppe, il più grande, apparecchiava la tavola e accedeva la stufa a carbone. Aveva 12 anni e toccava a lui badare alla famiglia.
Mamma Luigia faceva le pulizie in centro, papà Giuseppe il saldatore in una fabbrica lontana. I bambini andavano a scuola accompagnati da un cane lupo di nome Rinti, randagio come loro.
Abitavano in una stalla senza bagno né luce alla fine della città. Un separé proteggeva l’intimità degli adulti. Nell’inverno del 1963 erano partiti in treno da San Felice Cancello, Salerno, con 800 mila lire in tasca, il ricavato di un campo «a uso agricolo». Ma erano meridionali e troppo numerosi. Nessuno a Torino aveva voluto affittargli una casa.
«Leggere quei cartelli contro di noi mi faceva male», dice adesso Umberto Liparulo, il terzogenito, stirandosi i folti baffi grigi. «Come non ho mai dimenticato una maestra della seconda elementare. Secondo lei, io puzzavo. Ma non era vero, mia madre mi lavava ogni sera». Tenevano tre grandi mastelli davanti alla porta: per i vestiti, le stoviglie e i bambini. Andavano a prendere l’acqua alla fontana, dopo averla scongelata con un falò di vecchi giornali. «Sono stati anni bellissimi», dice Giuseppe Liparulo con le lacrime agli occhi. «Mio padre ci ha insegnato a non vergognarci mai della nostra povertà. Eravamo pieni di amici. Di persone che ci aiutavano. Abbiamo tirato fuori veramente l’orgoglio».
Ritrovarsi in una foto dell’archivio storico della Stampa è stato un colpo al cuore. Giovedì 10 luglio 1969. Mamma Luigia fa il bucato con i sette figli. La didascalia dice: «Torino, via Guido Reni 118, famiglia Liparulo “bisognosa”». Dopo cinque anni vissuti nella stalla, Giuseppe aveva deciso di scrivere una lettera al nostro giornale. Del resto, era l’unico in grado di farlo. «Ho scritto per Maurizio, nove mesi. Nella foto è in braccio a mia sorella Maria. Ero preoccupato che passasse il secondo inverno al freddo». Il giorno dopo uscì un trafiletto nella rubrica «Posta Nord/Sud» a pagina 5. L’articolo innescò immediatamente una catena di solidarietà. Dopo due giorni, alla famiglia Liparulo venne assegnata una casa popolare alla periferia nord di Torino. Quartiere Vallette, corso Molise. Mamma Luigia abita ancora lì. Oggi ha 81 anni e si rigira la fede nuziale nel dito, mentre guarda la fotografia: «Non avevamo niente, ma sono stati anni stupendi. Lavoravo, accudivo i miei bambini, ero giovane. Adesso invece...».
I Liparulo sono rimasti una famiglia unita. Partendo da quella stalla sono riusciti a costruire un piccolo impero. Negli anni sono arrivati a gestire fino a quaranta locali pubblici a Torino. Oggi hanno dieci bar e una piccola fabbrica di caffè, nella zona dello Juventus Stadium. «Ho deciso di chiamarlo Guatemal Caffè perché il Guatemala è il Paese più povero del Centro America», dice Giuseppe Liparulo. Povero di una povertà antica, come quella che hanno attraversato loro. «Ma c’era lavoro ovunque. Annusavi il futuro nell’aria. Bastava uscire di casa. Il mio primo impiego è stato in una ditta che riverniciava ringhiere. Con lo stipendio sono andato al mercato di Porta Palazzo a comprarmi una Graziella verde, nessuno aveva mai avuto una bicicletta in famiglia...». Lavorare onestamente, difendendosi dalle tentazioni. «Si facevano brutti incontri. Ma mio padre era un esempio vivente. Lavorava sempre. Con fierezza. Con un braccio menomato, anche se soffriva di bronchite cronica. Non si lamentava mai. Eravamo sicuri di farcela».
Giuseppe Liparulo padre è morto nel 2007 di tumore ai polmoni. Il giorno prima ha baciato in fronte i suoi figli. Orgoglioso di loro. Torino è stata dura. Ma alla fine, anche accogliente. Gli anni alla stalla adesso profumano di buono. «Domenica la mamma cucinava gli ziti con il ragù - ricorda Giuseppe Liparulo figlio - stavamo tutti insieme. Il pomeriggio andavamo al cinema della parrocchia a vedere Maciste». La sua fortuna, in un certo senso, è stata il servizio militare. Impiegato nel Reparto Sanitario Trasportabile, per guidare l’autoambulanza ha dovuto prendere la patente C. Finita la leva, dopo aver firmato cambiali per 5 anni, si è comprato un camion Iveco M50. Trasportava surgelati, gli affari andavano bene. Dopo due anni, con il ricavato e la vendita del camion, ha cambiato vita. «Ho comprato il primo bar in via Ormea, la più povera di Torino».
Sono passati quarant’anni. Alle sette di sera di un venerdì di dicembre, nell’anno di crisi 2013, i Liparulo sono al lavoro negli uffici della Guatemal Caffè. Hanno incorniciato la foto ritrovata. Appesa in alto, sulla parete d’ingresso. «Questi siamo noi», ripetono a tutti.