Massimo Gaggi, Corriere della Sera 13/12/2013, 13 dicembre 2013
QUANDO LA TECNOLOGIA CI IMPOVERISCE
«Atterrare usando i comandi manuali, senza la guida dei computer, era per me stressante. Ero molto preoccupato: controllare la velocità, la rotta, l’altitudine, tutto instabile». Lee Kang-Kok, coreano, capitano del Boeing 777 dell’Asiana schiantatosi il 6 luglio scorso sulla pista dell’aeroporto di San Francisco, è un pilota di grande esperienza, almeno sulla carta (10 mila ore di volo). Ma in quel giorno di pieno sole, con una visibilità perfetta e vento normale, Lee, improvvisamente privo dell’aiuto dell’autopilota e con l’Ils (il segnale-guida della pista) fuori uso, ha sbagliato l’atterraggio. Troppo bassa la velocità, troppo bassa la quota: l’aereo, in arrivo da Seul, ha urtato un ostacolo prima dell’inizio della pista, ha perso i carrelli ed è atterrato sulla pancia. La coda si è staccata di netto, la fusoliera ha tenuto per un po’, poi si è incendiata, ma i passeggeri sono riusciti in gran parte a mettersi in salvo. Alla fine 3 morti e 180 feriti. Poteva andare molto peggio, ma per l’America è stato comunque uno choc: il primo incidente fatale da molti anni a questa parte, ma soprattutto un incidente incomprensibile. Errore umano, certo, ma perché? La spiegazione l’ha data in questi giorni la commissione d’inchiesta: eccesso di dipendenza dall’automazione. Con la tecnologia che avanza e tutte le fasi del volo ormai governate dai computer, i piloti si sono man mano trasformati in controllori di volo. Se, però, per qualche motivo il software smette di funzionare correttamente o viene disattivato, il pilota, improvvisamente richiamato al suo antico mestiere, non sa più cosa fare. Non è la prima volta che accade: c’è stato un incidente simile ad Amsterdam qualche anno fa e molti altri sono stati evitati per un soffio. Del resto l’eccesso di dipendenza non è solo un problema delle cabine di pilotaggio: abbiamo smesso da anni di memorizzare i numeri, tanto ci pensa il telefonino. Coi correttori automatici anche saper scrivere una parola coi caratteri giusti è diventato, per molti, irrilevante. E in auto, occhi fissi sul navigatore, non sappiamo più leggere una mappa.
Se poi uno dei nostri ragazzi, improvvisamente costretto a scrivere a penna, lo fa con calligrafia incerta e infilando errori di ortografia, scuotiamo la testa in silenzio: qualunque commento equivale a un’autodenuncia della propria incapacità di capire quanto la tecnologia ha cambiato il mondo. Poi arriva un incidente come quello del Boeing Asiana e, dalle astratte discussioni sull’impatto sociologico della rivoluzione digitale, si passa alle commissioni d’inchiesta. Al termine delle quali i sommi esperti di tecnologie decretano che bisogna cambiare l’addestramento dei piloti, insegnando loro di nuovo a usare i comandi manuali. Non per tornare ai tempi del Barone Rosso: la cloche sui jet non c’è più da un pezzo e se gli incidenti aerei sono ormai rarissimi dobbiamo dire grazie soprattutto alla tecnologia. Ma non possiamo rassegnarci al trasferimento alle macchine dei meccanismi della conoscenza né a quello che Daniel Goleman chiama in Focus , il suo ultimo saggio, l’«impoverimento dell’attenzione».
@massimogaggi