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 2013  dicembre 13 Venerdì calendario

LA GUERRA DELL’EST


Per lui che una volta ha definito la fine dell’Urss «una delle più grandi tragedie della Storia » edificarne una nuova è lo scopo di una vita, la fedeltà suprema al giuramento che fece entrandonell’accademiadelKgb:preservarel’identitàelasicurezzadell’Unionedelle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Per Vladimir Putin il braccio di ferro con l’Unione europea sull’Ucraina è come la battaglia di Poltava, dove nel 1709 Pietro il Grande sconfisse Carlo XII di Svezia e i suoi alleati.
Non lo ha detto lui, ma Dmitrij Kiselev, uno dei più popolari conduttori di RT(Russia Today), il canale internazionale multilingue creato per portare la voce della propaganda russa nel mondo (un po’ come erano dall’altro versante, durante la guerra fredda, The Voice of America o Radio Free Europe). «Svezia, Polonia, Lituania.... non vi ricordano qualcosa?», ha ironizzato Kiselev, che sta a Putin come Apicella a Berlusconi: «È la stessa alleanza che Pietro il Grande sconfisse a Poltava. Curioso, è come se stessero cercando la rivincita di Poltava», ha continuato l’aedo putiniano, rincarando la dose: «Il ministro degli Esteri svedese Carl Bildt viene da una vecchia famiglia aristocratica, alcuni suoi antenati erano generali e lui stesso in gioventù è stato un agente della Cia».

Possiamo immaginare che Putin, per avviare il suo grande disegno di recupero dell’immenso territorio sovietico sinistrato dal terremoto del 1990, abbia dispiegato nel suo ufficio al Cremlino tre grandi mappe. La prima, quella dell’Impero Russo nel 1910: che andava da Varsavia fino al Pacifico e dall’Artico fino ai confini della Persia e dell’Afghanistan. La seconda quella dell’Unione Sovietica nel 1924, che aveva perso la Polonia, le Repubbliche Baltiche e la Finlandia, ma si estendeva dalla Bielorussia al Pacifico ed era rimasta inalterata da Nord a Sud. La terza quella dell’Urss dopo il 1945, quando Stalin aveva riannesso Estonia, Lettonia e Lituania creando appunto l’Unione delle 15 repubbliche sovietiche.
Putin è abbastanza realista per capire che la prima via, quella dell’Impero Russo che lo accomunerebbe a Pietro il Grande, può essere soltanto un sogno con il quale trastullarsi nelle notti insonni. Che la terza via, quella staliniana del dopoguerra, scatenerebbe reazioni violente nelle tre Repubbliche baltiche, che perfino negli anni della più dura repressione sovietica erano riuscite a mantenere una dignitosa diversità (a Vilnius, capitale lituana, la processione nel giorno dei santi Pietro e Paolo, cui mi capitò di assistere, era un’imponente manifestazione di dissenso popolare). E che, dunque, la seconda via è l’unica praticabile: l’Urss del 1924, che perfino Boris Eltsin provò a riproporre con quella scricchiolante impalcatura che si chiamava Comunità degli Stati indipendenti (Cis), alla quale non credeva, ma gli serviva a tamponare le critiche dei nazional-comunisti di Zhirinovskij e Zjuganov per aver destrutturato l’Urss.
In fondo il disegno di Putin, se non ci fosse la piazza ucraina a rompere le uova nel paniere, non sarebbe così complicato da realizzare. Delle 11 ex repubbliche sovietiche rimaste, dopo il distacco irreversibile delle baltiche, nessuna è in grado di uscire totalmente dall’orbita di Mosca o di sottrarsi, nel caso delle più autonome, ai ricatti del nuovo zar. Guardate che è successo all’Armenia, che non voleva aderire all’Unione euroasiatica proposta da Putin e sembrava molto sensibile alle sirene dell’Unione europea: è bastata la minaccia di bloccare le esportazioni del maggiore prodotto armeno, il cognac, per piegare il governo di Erevan. In Bielorussia il dittatore Aleksandr Lukashenko ha sigillato con il mastice ogni spiraglio da cui potevano entrare gli spifferi delle democrazie europee: perfino le modelle delle affissioni pubblicitarie, in cui paese che ha la più alta densità di belle donne per metro quadrato dopo l’Ucraina, devono avere il certificato di qualità byelorusskaya (russa bianca) per evitare ogni contagio. LaGeorgia,dopoleultimeelezioni e il ricordo della disastrosa avventura bellica contro la Russia nel 2008, ha scelto il male minore tra Bruxelles e Mosca e sta rientrando nei ranghi. L’Azerbajan naviga su un mare di petroldollari (come dimostrano gli investimenti pubblicitari nel mondo e le sponsorizzazioni sportive, perfino dell’Atletico di Madrid) e potrebbe permettersi totale autonomia. Ma Ilham Aliyev, il suo immarcescibile presidente, è figlio ed erede politico di quel Heydar Aliyev, che fu segretario azero del Pcus ai tempi di Breznev e primo presidente nella Baku post-sovietica: uno che era fatto della stessa pasta di Putin e i figli non tradiscono i padri soprattutto quando diventano dinastie di potere e tendono, per preservarsi, a cucire la bocca ai dissenzienti (quando Baku ospitò, con sfarzo sultanesco, l’Eurosong Contest, un festival canoro che ha grande successo nell’Europa orientale ex comunista, tutti gli oppositori furono gentilmente ospitati nelle carceri locali).
Il quadro delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, dalle più ricche come il Kazakhstan alle più misere come il Kirghizistan, è ancora più inquietante per i canoni europei, ma totalmente in sintonia con la filosofia di potere di Putin. I loro presidenti, quasi tutti a vita, hanno cominciato la loro carriera nei ranghi del Pcus o dell’Armata rossa: dal kazako Nursultan Nazarbaev, che era già un alto papavero del partito quando morì l’Urss, all’uzbeko Islam Karimov, che è al terzo mandato avendo aggirato la costituzione che vietava più di due termini (un po’ come ha fatto Putin usando il fantoccio Medvedev), per finire al tagiko Emomali Rahmon, che per camuffare il suo passato comunista ha cambiato l’originale cognome russo Rahmonov nel più etnico Rahmon). E che dire del padrone del Turkmenistan Gurbanguly Berdimuhammedov, seguace del Libro d’Oro emanato dall’ex capo sovietico locale Saparmurad Niyazov, che ha fatto innalzare nei centri più importanti delle statue dorate che lo raffigurano e che, con un meccanismo a orologeria, indicano sempre il sole dall’alba al tramonto?
Ma Putin non ricorre soltanto a minacce e ricatti per ricostruire l’Urss. Ha scoperto che il soft power, la forza delle parole e della propaganda, è efficace quanto la forza delle armi o dell’economia, anche perché le ex repubbliche sovietiche sono rimaste tutte russofone e in molte l’insegnamento della lingua russa è obbligatorio nelle scuole. Russia Today, il canale dove si esibisce il citato Dmitrij Kiselev, che trasmette anche in arabo, inglese e spagnolo, è il megafono di Putin: nato nel 2005 con un budget modesto di 30 milioni di dollari, oggi dispone di un finanziamento statale di 300 milioni annui, ha un’audience potenziale di 644 milioni di ascoltatori e il suo sito di news ha superato il miliardo di visitatori. La sua “missione”, secondo i suoi stessi manager, «è di portare nel mondo il punto di vista della Russia» e di «dare le notizie che gli altri tendono a nascondere» (tra gli ospiti fissi, Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks). Russia Today non va per il sottile. Gli scrittori che avversano Putin, come Mikhail Shishkin e Boris Akunin, sono definiti dai commentatori di RT “liberasti”, una crasi di liberali e pederasti. Un accordo economico con l’Unione Europea per l’Ucraina sarebbe «come acquistare un biglietto per un viaggio sul Titanic». E così via.
L’Ucraina resta, infatti, il punto debole e comunque cruciale della rinascita dell’Urss sognata da Putin. Per il presidente russo quella russa è, come ha ripetuto più volte, una «civiltà unica», distinta da quella europea. Per lui, l’adesione dell’Ucraina non ha soltanto una valenza politica o economica, ma è soprattutto una «questione di civiltà ». In luglio il presidente russo è andato in visita a Kiev, accompagnato dal patriarca della Chiesa ortodossa russa Kirill, per celebrare il 1.025mo anniversario della conversione forzata imposta dal principe kievano Vladimir al suo popolo, che, grazie all’alleanza con Bisanzio, fece diventare il principato di Kiev lo Stato egemone nelle terre russe. Invocando questa eredità spirituale Putin disse nell’occasione che russi e ucraini «sono senza alcun dubbio un unico popolo». È un’opinione largamente condivisa dalla maggioranza dei russi: secondo i sondaggi, anche i più autorevoli, il 61% dei russi dice che l’Ucraina «non è estero». Ma non è condivisa, a giudicare dalla risposta delle piazze, dalla maggioranza degli ucraini. E, con grande disdoro del presidente russo e del suo alleato il patriarca Kirill, neppure dalla Chiesa ortodossa ucraina, soprattutto dal patriarca di Kiev, che ha dato rifugio nel suo monastero ai dimostranti caricati dalla polizia. L’ottantaquattrenne patriarca Filarete ha detto in un’intervista: «La nostra Chiesa sta con il popolo e sostiene l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea. Noi preghiamo ogni giorno Dio affinché, per la nostra indipendenza, ci aiuti a entrare nella Ue». Forse per l’età, o forse per la sua fierezza ucraina, Filarete non è tra gli ascoltatori di Russia Today, per la quale i manifestanti sono «le forza di Eurosodoma».