Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 13 Venerdì calendario

C’ERA UNA VOLTA UN CALCIO FEDELE ALLA MAGLIA

Fedeli alla maglia, quella “quattro stagioni” di una volta, di lana dura, pezzo unico (riutilizzata anche do­po cento lavaggi) e senza numeri. Le maglie numerate, per la prima volta si videro nel 1928, ma a Lon­dra, li mise il Chelsea. Orgoglio di indossare la maglia, specie quella che fino al­l’invasione folle e milionaria delle pay-tv, anda­va dal n.1 del portiere all’11 dell’ala sinistra. Ma­glie “anonime”, eppure riconosciute e ricono­scibili, anche senza i moderni nomi tatuati sul­la schiena. Figurarsi poi, se di fianco allo scu­detto c’era lo spazio per lo sponsor stampato sul petto...

Tutta roba americana, apparsa alla fine dei foot­ball- rock anni ’70, nei Cosmos di New York del fuggiasco laziale “Long John” Chinaglia. La pri­ma vera maglia sponsorizzata da noi è stata quella del Perugia di patron D’Attoma, stagio­ne 1979-’80. Maglie leggendarie, simbolo del­la tradizione e della storia di un club che in I­talia, più che altrove, spesso coincide con i co­lori e con i vessilli del Comune che orgogliosa­mente rappresenta. Nel calcio dei campanili, la storia è nota al po­polo degli stadi: la prima muta completa (maglia­calzoncini- calzettoni) a scendere in campo fu quella “bianca” del Genoa Cricket and Athletic Club, fondato dagli inglesi nel 1893. «Poi, dalla maglia abbinata a pantaloni e calzetto­ni scuri, il Genoa passa alla “palata” bianca e blu, fino ad arrivare nel 1904 – dopo tre scudetti di fila – al­l’attuale “partita” rosso-blu».

Chiamasi palata, la maglia a stri­sce fine, di due colori, in verti­cale. Partita invece, è la biparti­zione cromatica sempre in verti­cale, a bande larghe. Sono i detta­gli tecnici riportati in appendice a un libro romanticamente nostalgico, Le maglie della Serie A .

Lo ha scritto Giorgio Welter, che si presenta co­sì: «Ero uno di quei bambini cresciuti negli anni ’70 a Milano, quartiere di San Siro. Alla domeni­ca andavo allo stadio, ancora non si chiamava Meazza, e passati venti minuti dal fischio d’ini­zio, a noi piccoli, ci facevano entrare per assiste­re alla partita. Dopo quella del Milan, la mia squa­dra del cuore, rimasi folgorato dai colori e dalla foggia delle maglie di tutte le altre squadre. Una folgorazione che provo ancora adesso che ho 45 anni».

Welter oggi vive a Parigi, è autore e produttore di film d’animazione e tra questi ce n’è uno che ha dedicato al calcio, la serie Street Football “La com­pagnia dei Celestini”, ispirato al romanzo omo­nimo di Stefano Benni. E va letto come un ro­manzo anche il suo secondo volume sulle ca­sacche del pallone (il primo è Le maglie dei cam­pioni edito da Codice Atlantico). Un viaggio da Trieste a Palermo attraverso 63 squadre: «Quel­le che hanno “ballato” almeno una stagione in Se­rie A», spiega l’autore. Dagli “alabardati” della Triestina, che dopo i fasti dei tempi di Nereo Roc­co sono spariti nel dilettantismo, si passa all’o­perazione archeologica delle maglie del glorio­so “quadrilatero piemontese”: i grigi dell’Ales­sandria, i nerostellati del Casale, i bianchi della Pro Vercelli e gli azzurri del Novara.

Glorie passate, ma ancora vive, come la “fascia­ta” bianco-blu, modello rugby, della Pro Patria che vanta un record insuperato: città non capo­luogo di provincia con il maggior numero di sta­gioni in A (14). Passaggi fugaci, quasi in ombra, come per i “bianchi” – in onore della Pro Vercel­li – Vigili del Fuoco dello Spezia, campioni del­l’Alta Italia nella stagione di guerra 1944, scu­detto che attende ancora di essere riconosciuto. La Juventus debuttò in «rosa con cravattino ne­ro » nel 1897, prima dell’invio (nel 1903), dall’In­ghilterra delle “palate” bianconere, provenienti direttamente dagli spogliatoi del britannico Notts County Fc. Il nobile modello “bianconero” della Vecchia Signora è stato poi emulato da decine di società (in Serie A Ascoli, Udinese e Siena). Il ro­sa nel 1907 venne ripreso dal Palermo, ma pare che un lavaggio sbagliato scolorì le precedenti mute rosso-blu. Sbagliando candeggio i sicilia­ni divennero i “rosanero”. Il rosso e il bianco, dal Padova al “Lanerossi” Vicenza di Pablito Rossi, passando per Piacenza, Varese fino a Bari, è l’ab­binamento più visto e diffuso sui campi.

Ci sono poi le tinte uniche, e assolutamente ori­ginali, come il lilla del Legnano e il viola della Fio­rentina, voluto appositamente per «distinguersi dagli altri» dal fondatore, il marchese Luigi Ri­dolfi Vay da Vernazzzano. C’è il “giallo canarino” del Modena, amato dal poeta Antonio Delfini e celebrato dall’altrettanto poetico inno Canarino va di Francesco Guccini. Il cantautore di Pavana predilige però la “piena” arancione della Pistoie­se, omaggio all’Olanda dei colleghi floricoltori.

«Scalando sul verde, impossibile non restare am­maliati dall’Avellino dei tempi di Juary, che fe­steggiava il gol danzando intorno alla bandieri­na », va giù di amarcordWelter. C’è poi il neroverde del Sassuolo appena approdato per la prima vol­ta in Serie A, così come quello del Venezia che ha aggiunto «l’arancio» nel 1987, dopo la fusione con il Mestre. Il rossoverde della squadra della classe metallurgica, la Ternana (alias le “Fere”, per la proverbiale aggressività in campo), da noi è stato imitato solo dai dilettanti perugini della Pontevecchio e nel mondo ha soltanto tre “sosia”: i francesi del Sedan, i portoghesi del Maretimo e il Rampla Juniors di Montevideo, orgoglio dei quartieri popolari della capitale uruguaiana.

Legge non scritta dice che si deve rimanere sem­pre fedeli ai colori della propria squadra, ma nul­la vieta di provare una fascinazione estetica per quelli delle formazioni rivali. Impossibile rima­nere insensibili al mito granata del Grande Tori­no, all’unicum del blucerchiato della Sampdoria, «la sola casacca a quattro colori». Fascino più di­screto: l’amaranto nordico della Reggiana e quel­lo sudista della Reggina, al centro quello del Li­vorno, citato fin dalla sua casa di produzione – “Motorino Amaranto” – dal regista-tifoso Paolo Virzì. Un altro della generazione cresciuta con il mito della “prima maglia”, intoccabile, e della “se­conda tenuta”, sempre di ripiego, per non confon­dersi («e non confondere il pubblico degli stadi, un tempo gremiti») con la squadra di casa. «Og­gi ci sono delle seconde e addirittura terze ma­glie che fanno rabbrividire... – dice Welter –. La

camouflage ( mimetica) del Napoli, per esempio, la trovo inguardabile.

Eppure è molto richiesta, perché anche il mer­chandising calcistico ormai segue la moda». Al­le maglie da club-store, meglio quelle da colle­zione. E il mercato impazza in Rete (vedi www.passionemaglie.it), con tanto di asta. Si va dai duecento euro per le autografate della Roma di Totti, ai sei-settemila euro sborsati per la lanella juventina di Omar Sivori o per il “top memora­bilia”: la girocollo con laccetti di Gigi Riva, Cagliari dello scudetto, 1970. «Oggetti di culto – conclu­de Welter – e ricordi del calcio da belle bandiere, anzi da belle maglie, che sopravvive nel bambi­no che è in me e che ha scritto questo libro pen­sando ai bambini di oggi e di domani».