Massimiliano Castellani, Avvenire 13/12/2013, 13 dicembre 2013
C’ERA UNA VOLTA UN CALCIO FEDELE ALLA MAGLIA
Fedeli alla maglia, quella “quattro stagioni” di una volta, di lana dura, pezzo unico (riutilizzata anche dopo cento lavaggi) e senza numeri. Le maglie numerate, per la prima volta si videro nel 1928, ma a Londra, li mise il Chelsea. Orgoglio di indossare la maglia, specie quella che fino all’invasione folle e milionaria delle pay-tv, andava dal n.1 del portiere all’11 dell’ala sinistra. Maglie “anonime”, eppure riconosciute e riconoscibili, anche senza i moderni nomi tatuati sulla schiena. Figurarsi poi, se di fianco allo scudetto c’era lo spazio per lo sponsor stampato sul petto...
Tutta roba americana, apparsa alla fine dei football- rock anni ’70, nei Cosmos di New York del fuggiasco laziale “Long John” Chinaglia. La prima vera maglia sponsorizzata da noi è stata quella del Perugia di patron D’Attoma, stagione 1979-’80. Maglie leggendarie, simbolo della tradizione e della storia di un club che in Italia, più che altrove, spesso coincide con i colori e con i vessilli del Comune che orgogliosamente rappresenta. Nel calcio dei campanili, la storia è nota al popolo degli stadi: la prima muta completa (magliacalzoncini- calzettoni) a scendere in campo fu quella “bianca” del Genoa Cricket and Athletic Club, fondato dagli inglesi nel 1893. «Poi, dalla maglia abbinata a pantaloni e calzettoni scuri, il Genoa passa alla “palata” bianca e blu, fino ad arrivare nel 1904 – dopo tre scudetti di fila – all’attuale “partita” rosso-blu».
Chiamasi palata, la maglia a strisce fine, di due colori, in verticale. Partita invece, è la bipartizione cromatica sempre in verticale, a bande larghe. Sono i dettagli tecnici riportati in appendice a un libro romanticamente nostalgico, Le maglie della Serie A .
Lo ha scritto Giorgio Welter, che si presenta così: «Ero uno di quei bambini cresciuti negli anni ’70 a Milano, quartiere di San Siro. Alla domenica andavo allo stadio, ancora non si chiamava Meazza, e passati venti minuti dal fischio d’inizio, a noi piccoli, ci facevano entrare per assistere alla partita. Dopo quella del Milan, la mia squadra del cuore, rimasi folgorato dai colori e dalla foggia delle maglie di tutte le altre squadre. Una folgorazione che provo ancora adesso che ho 45 anni».
Welter oggi vive a Parigi, è autore e produttore di film d’animazione e tra questi ce n’è uno che ha dedicato al calcio, la serie Street Football “La compagnia dei Celestini”, ispirato al romanzo omonimo di Stefano Benni. E va letto come un romanzo anche il suo secondo volume sulle casacche del pallone (il primo è Le maglie dei campioni edito da Codice Atlantico). Un viaggio da Trieste a Palermo attraverso 63 squadre: «Quelle che hanno “ballato” almeno una stagione in Serie A», spiega l’autore. Dagli “alabardati” della Triestina, che dopo i fasti dei tempi di Nereo Rocco sono spariti nel dilettantismo, si passa all’operazione archeologica delle maglie del glorioso “quadrilatero piemontese”: i grigi dell’Alessandria, i nerostellati del Casale, i bianchi della Pro Vercelli e gli azzurri del Novara.
Glorie passate, ma ancora vive, come la “fasciata” bianco-blu, modello rugby, della Pro Patria che vanta un record insuperato: città non capoluogo di provincia con il maggior numero di stagioni in A (14). Passaggi fugaci, quasi in ombra, come per i “bianchi” – in onore della Pro Vercelli – Vigili del Fuoco dello Spezia, campioni dell’Alta Italia nella stagione di guerra 1944, scudetto che attende ancora di essere riconosciuto. La Juventus debuttò in «rosa con cravattino nero » nel 1897, prima dell’invio (nel 1903), dall’Inghilterra delle “palate” bianconere, provenienti direttamente dagli spogliatoi del britannico Notts County Fc. Il nobile modello “bianconero” della Vecchia Signora è stato poi emulato da decine di società (in Serie A Ascoli, Udinese e Siena). Il rosa nel 1907 venne ripreso dal Palermo, ma pare che un lavaggio sbagliato scolorì le precedenti mute rosso-blu. Sbagliando candeggio i siciliani divennero i “rosanero”. Il rosso e il bianco, dal Padova al “Lanerossi” Vicenza di Pablito Rossi, passando per Piacenza, Varese fino a Bari, è l’abbinamento più visto e diffuso sui campi.
Ci sono poi le tinte uniche, e assolutamente originali, come il lilla del Legnano e il viola della Fiorentina, voluto appositamente per «distinguersi dagli altri» dal fondatore, il marchese Luigi Ridolfi Vay da Vernazzzano. C’è il “giallo canarino” del Modena, amato dal poeta Antonio Delfini e celebrato dall’altrettanto poetico inno Canarino va di Francesco Guccini. Il cantautore di Pavana predilige però la “piena” arancione della Pistoiese, omaggio all’Olanda dei colleghi floricoltori.
«Scalando sul verde, impossibile non restare ammaliati dall’Avellino dei tempi di Juary, che festeggiava il gol danzando intorno alla bandierina », va giù di amarcordWelter. C’è poi il neroverde del Sassuolo appena approdato per la prima volta in Serie A, così come quello del Venezia che ha aggiunto «l’arancio» nel 1987, dopo la fusione con il Mestre. Il rossoverde della squadra della classe metallurgica, la Ternana (alias le “Fere”, per la proverbiale aggressività in campo), da noi è stato imitato solo dai dilettanti perugini della Pontevecchio e nel mondo ha soltanto tre “sosia”: i francesi del Sedan, i portoghesi del Maretimo e il Rampla Juniors di Montevideo, orgoglio dei quartieri popolari della capitale uruguaiana.
Legge non scritta dice che si deve rimanere sempre fedeli ai colori della propria squadra, ma nulla vieta di provare una fascinazione estetica per quelli delle formazioni rivali. Impossibile rimanere insensibili al mito granata del Grande Torino, all’unicum del blucerchiato della Sampdoria, «la sola casacca a quattro colori». Fascino più discreto: l’amaranto nordico della Reggiana e quello sudista della Reggina, al centro quello del Livorno, citato fin dalla sua casa di produzione – “Motorino Amaranto” – dal regista-tifoso Paolo Virzì. Un altro della generazione cresciuta con il mito della “prima maglia”, intoccabile, e della “seconda tenuta”, sempre di ripiego, per non confondersi («e non confondere il pubblico degli stadi, un tempo gremiti») con la squadra di casa. «Oggi ci sono delle seconde e addirittura terze maglie che fanno rabbrividire... – dice Welter –. La
camouflage ( mimetica) del Napoli, per esempio, la trovo inguardabile.
Eppure è molto richiesta, perché anche il merchandising calcistico ormai segue la moda». Alle maglie da club-store, meglio quelle da collezione. E il mercato impazza in Rete (vedi www.passionemaglie.it), con tanto di asta. Si va dai duecento euro per le autografate della Roma di Totti, ai sei-settemila euro sborsati per la lanella juventina di Omar Sivori o per il “top memorabilia”: la girocollo con laccetti di Gigi Riva, Cagliari dello scudetto, 1970. «Oggetti di culto – conclude Welter – e ricordi del calcio da belle bandiere, anzi da belle maglie, che sopravvive nel bambino che è in me e che ha scritto questo libro pensando ai bambini di oggi e di domani».