Stefano Rodi, Sette 13/12/2013, 13 dicembre 2013
QUESTO È IL MUSEO DELLA STAMPA, BELLEZZA
“Carta canta”. A pensarci bene questo modo di dire suona ancora nella nostra era sempre più digitale, dove tutto passa e va, sui monitor dei computer, degli smartphone e, tra breve, attraverso le lenti degli occhiali “a realtà aumentata” di Google. C’è un luogo dove si capisce tuttora come la carta lasci tracce durature con le quali non finiremo mai di fare i conti, per fortuna: il Museo della stampa e della stampa d’arte di Lodi. È un viaggio in uno strano paese delle meraviglie dove si coglie la stretta relazione che esiste tra macchine e uomini quando, insieme, producono cultura. «Questa non è una rassegna di mummie del passato, ma un museo vivo» spiega Tino Gipponi, scrittore, critico d’arte, collezionista e presidente dell’associazione culturale che gestisce il museo. Entrare in via Costa 4 è come mettere piede in una gigantesca bottega rinascimentale che, di colpo, può prendere vita: tutte le macchine tipografiche, le linotype, i torchi, le presse, sono infatti perfettamente funzionanti. E, come in un film di Walt Disney, i visitatori si trovano in mezzo a un’animazione di oggetti che sembravano privi di vita e semplici cimeli del passato. Del 1848 per esempio. Quell’anno a Milano, in mezzo alle Cinque Giornate, tra i colpi di fucile da una barricata all’altra, un certo Alessandro Lombardi, poi diventato addetto stampa al seguito dell’armata piemontese, stampava volantini per i patrioti con il suo torchio modello Stanhope, che venne poi distrutto da un bombardamento durante la Seconda guerra mondiale. L’unico modello gemello di quel torchio, che ha contribuito a fare la storia d’Italia, è conservato nel museo di Lodi. E funziona.
Quella raccolta a Lodi, secondo diversi esperti, è la più ricca collezione di macchine da stampa italiana, e una delle maggiori a livello europeo. E adesso, o tra poco, questo tesoro rischia di andare perduto per sempre, visto che la famiglia proprietaria degli spazi che ospitano il museo non è più in grado di sostenerne i costi.
Aperto al pubblico nel 2008, non è mai stato conosciuto come merita. Il fatto che abbia trovato spazio proprio a Lodi forse non è un caso, se si vuole credere al filo della storia: fu in questa città che il lodigiano Filippo Cavagni introdusse, nella metà del XV secolo, l’arte della stampa, contendendo così il primato al più noto stampatore dell’epoca, il milanese Panfilo Castaldi. E poi, nel XVIII e XIX secolo, a Lodi ci furono diverse famiglie di celebri tipografi che tramandavano di padre in figlio l’arte della fusione dei caratteri e della stampa, diventando poi anche editori e direttori di giornale.
La storia. Questa febbre per la stampa e i suoi macchinari è arrivata fino ad Andrea Schiavi, scomparso nel 2009, tipografo ed editore, che ha cominciato a pensare di mettere in piedi il museo dai primi Anni 90. In quel periodo le tipografie, tra cui anche la sua Lodigraf, erano costrette a gettare la spugna, strangolate dalla crisi del settore. E dietro alle serrande abbassate restavano macchine prestigiose. Schiavi ha girato il Paese per recuperare “gioielli” che andavano perduti.
«In quel periodo», ricorda Gipponi , «lui credeva alle promesse che ci facevano le istituzioni pubbliche, che avrebbero finanziato la nascita di questo museo, e andava avanti a testa bassa. Gli dicevo di aspettare, che era un rischio prendere nuove macchine, che non sapevamo più cosa farne». Radunare una collezione di queste dimensioni, oltre ai costi, comportava anche problemi logistici non da poco, viste le dimensioni delle macchine da stampa: andavano smontate pezzo per pezzo, trasportate, rimontate e, quando necessario, aggiustate per rimetterle in funzione.
Nel tempo, Schiavi ha riempito la sede della sua vecchia tipografia e altri magazzini sparsi per la città. Sono passati anni, lenti e difficili, con quel tesoro nascosto che continuava a crescere nei grandi locali della ex Lodigraf. «Gli uomini delle istituzioni passavano e le promesse di finanziamento non venivano mantenute», ricorda Gipponi. Poi finalmente, grazie soprattutto allo sforzo di molti volontari, al contributo di Snam e Fondazione Banca Popolare, e qualche piccolo aiuto di Regione e Provincia, il 7 giugno 2008 il Museo della stampa veniva ufficialmente inaugurato.
La visita. Il viaggio nel tempo e nelle meraviglie della stampa, da Gutenberg alle macchine da scrivere Olivetti e alle calcolatrici meccaniche, si sviluppa attraverso tre sale principali dedicate a stampa tipografica, stampa d’arte e legatoria. Ma visto che in questo luogo la carta canta, c’è anche un piccolo laboratorio dove la si produce. Le storie delle macchine per la stampa si intrecciano con quelle degli uomini, come quella del Columbian, rarissimo torchio tipografico, unico esemplare presente in Italia, inventato da George Clymer a Filadelfia e prodotto a Londra dal 1817.
Quello esposto a Lodi fu avvistato per caso, in pessimo stato, nel giardino di una villa di una famiglia inglese in provincia di Lecce, in funzione di portavasi. Prima di fare quella ingloriosa fine aveva svolto la sua brillante carriera in India durante il periodo coloniale, per poi essere trasferito in Puglia da un baronetto inglese che se lo era portato con sé come oggetto decorativo. Schiavi, appena saputa la notizia, lo acquistò e lo fece trasportare a Lodi ridandogli l’importanza che meritava. Adesso è uno dei pezzi di pregio del museo, naturalmente funzionante anche lui.
Una visita in questi locali non è solo per addetti ai lavori: le pietre litografiche da due quintali, provenienti dalla Vallardi, e realizzate tra il 1860 e il 1930, sono uno spettacolo per tutti. Così come il carattere più piccolo al mondo, realizzato negli stabilimenti Nebiolo di Torino, con cui è stata stampata un’Ave Maria che può essere letta solo con una potente lente d’ingrandimento. E poi il prototipo in scala 1:5 del torchio di Gutenberg, o il libro più piccolo del mondo. Nella sala della stampa d’arte c’è una selezione di torchi calcografici costruiti nel 1700 e 1800 e, tra gli altri, uno tutto in legno, a stella, utilizzato dalla casa editrice Ricordi di Milano.
Il fascino di queste macchine non è solo quello della forma, che assume spesso il contorno di una scultura, ma anche quello del movimento. È il lavoro di alcuni vecchi tipografi, e l’opera volontaria di un gruppo di giovani e appassionate guide, e del direttore Osvaldo Folli, a rendere magico questo museo. Sono loro a rapire in un mondo di sogno le centinaia di ragazzini che passano di qui grazie alle visite organizzate dalle loro scuole. A cominciare dal piccolo laboratorio dove si trasforma carta straccia in un nuovo foglio da stampare o da scrivere.
«I bambini, ma anche i ragazzi delle scuole superiori, restano a bocca aperta quando vedono come dalla macerazione in acqua della carta da riciclo si passa nella macchina “olandesina”, poi alla produzione del pisto, infine riversato nel tino. Insomma come si fa la carta». Lo racconta Alice Sari, laureata in Storia dell’arte e una delle volontarie che dedicano il loro tempo a illustrare ai ragazzi una cultura che non deve andare perduta. Alla fine, poi, ogni studente produce un foglio filigranato, utilizzando telaio e cascio su cui il tipografo imprime, con un torchio del 1858, il suo nome, quello della scuola e la data della visita. Magia nei tempi di WhatsApp.
L’oblio. Ma questi gioielli, il fascino della loro storia, indispensabili come salvagenti per non annegare soltanto nel mare dei 140 caratteri di Twitter, rischiano di andare perduti, “come lacrime nella pioggia”, per dirla con il replicante di Blade Runner. «Gli spazi di questa ex tipografia non sono adatti per ospitare un museo di questo valore e di queste dimensioni, tenendo anche conto che abbiamo ancora un sacco di macchine in magazzino che non possiamo esporre». È questo l’allarme che lancia Tino Gipponi, uomo di cultura che non può assistere inerme alla deriva di questo patrimonio che ha contribuito a raccogliere insieme a Schiavi. «I suoi figli non possono accollarsi ancora a lungo il sostentamento dei locali. E allora, se le istituzioni non intervengono come stiamo chiedendo da anni, cosa succederà?».
Semplice: andrà tutto perduto. Un vero peccato, visto che sono tante le scuole che potrebbero visitarlo e i convegni, le presentazioni, le tavole rotonde che si potrebbero organizzare in un museo vivo come questo. «Lasciarlo morire sarebbe un disastro nazionale», rilancia il vicesindaco di Lodi Simonetta Pozzoli, «ma il Comune in questo momento non ha le risorse per fare fronte a questo problema, è inutile negarlo. Il reperimento di un altro spazio non è facile e noi abbiamo già in carico il problema della sistemazione del Museo civico nell’ex Cavallerizza. Mi piacerebbe però che fosse chiaro a tutti che il valore del Museo della stampa va oltre i confini di Lodi». Perderlo sarebbe un danno per tutti. Se ci sono dubbi, basta andare a visitarlo. Finché è aperto.