Federica Lamberti Zanardi, Il Venerdì 13/12/2013, 13 dicembre 2013
IL MIO NOIR: LA FINANZA E ALTRI DISASTRI
Roma. Paolo Virzì è appena tornato dal Torino Film prima edizione che ha diretto lui e che lo ha messo di buon visto che gli spettatori sono aumentati del 30 per cento all’anno scorso. I mobili del suo nuovo studio all’Ostiense sempre gli stessi, ma la disposizione diversa dà un senso di cambiamento, trasformazione. Lo stesso che si prova guardando Il capitale umano, il film, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen Amidon. È sempre Virzì, qualcosa in più, o in meno: formalmente sobrio, rarefatto, amaro.
La maturità dell’autore di Ovosodo, Caterina va in città, La bella si intravedeva già in Tutti i santi giorni, del 2012, girato come indipendente americano. Ora Il capitale umano (in sala dal 9 gennaio) la svolta stilistica di un regista che in vent’anni ha saputo raccontare ironia e tenerezza l’evoluzione della società italiana, forse il vero Monicelli, Risi, Steno, capace di infilare in ogni storia un elemento autobiografico che la rende più vera, più vicina al pubblico.
È un noir finanziario che affronta con toni asciutti un tema già toccato negli ultimi due anni da Il gioiellino di Andrea Molaioli (sullo scandalo Parmalat) e da L’industriale di Giuliano Montaldo: la spregiudicatezza dell’alta finanza italiana che ha distrutto un Paese. Virzì racconta la crisi del capitalismo, i suoi effetti su due generazioni, ma lo fa con sguardo complice e affettuoso, senza mai rinunciare alla sua ironia, adottando una struttura narrativa pirandelliana che inquadra lo stesso episodio, cruciale, da tre diversi punti di vista. «Volevo mostrare che le cose non sono quasi mai come sembrano. In ogni capitolo del mio film si scopre che c’è un’altra possibile verità, che ogni personaggio ha le sue ragioni: meschine, giuste, nobili o idiote. Ma comunque comprensibili» spiega il regista.
Ambientato nel gelo, climatico e umano, della Brianza, il film ha come protagonisti due famiglie: i Bernaschi, ricchissimi e intoccabili, e gli Ossola, più modesti e vulnerabili. Il capofamiglia dei Bernaschi è un Fabrizio Gifuni cinico e sfrontato come solo certi ricchi. Fabrizio Bentivoglio è l’altro padre, Dino Ossola, impareggiabile cialtrone, con un tasso pericolosamente basso di dignità.
Le vicende delle due famiglie, così diverse per estrazione sociale e conto in banca, si incrociano attraverso i figli adolescenti, Massimiliano e Serena, coinvolti in un fatale e poco chiaro incidente stradale, alla vigilia di Natale. Punto di snodo della storia, le mogli: Carla, borghese mite, velleitaria e annoiata (Valeria Bruni Tedeschi) e la saggia, dolce, un po’ ingenua ma risoluta Roberta (Valeria Golino), la compagna di Dino Ossola.
Ma il vero protagonista è quel «capitale» del titolo. «Non è un caso se ho voluto ostinatamente, e contro il parere di tutti, usare la parola Capitale. È un film sulla fine di un modello di sviluppo in cui avevamo creduto. Fine dell’illusione “saremo tutti ricchi, staremo tutti bene”. La nostra generazione sta lasciando un disastro ai suoi figli, abbiamo sperperato tutto, consumato malamente le risorse».
Ed è proprio il rapporto genitori figli, l’altro tema del film. Un tema caro a Virzì, affrontato stavolta senza la leggerezza di Caterina va in città o la nostalgia di La prima cosa bella, ma con una rigorosa assunzione di responsabilità. «I padri del film sono meschini e autocentrati: perseguono le loro ambizioni e non si accorgono delle esigenze dei figli, del deserto che stanno lasciando. È il ritratto della nostra realtà, di quello che non ha fatto l’Italia per i giovani. La mia primogenita, Ottavia, è scappata prima a Berlino e poi a Londra, dove lavora come scenografa. Ha 24 anni e uno sguardo molto amaro, pieno di rabbia nei confronti del nostro Paese».
Virzì aveva già raccontato i precari senza futuro in Tutta la vita davanti. Ma, dice, «Il capitale umano ha qualcosa in più. È tratto da un romanzo che analizza la società con uno sguardo e un taglio squisitamente americano. Amidon ha ambientato la vicenda alla vigilia dell’11 settembre, un evento che ha cambiato per sempre l’Occidente. Con gli sceneggiatori Francesco Bruni e Francesco Piccolo l’abbiamo trasferita ai nostri giorni, minacciati da un collasso meno eclatante ma altrettanto epocale. Viviamo in una situazione econo- mica, sociale e civile che spesso costringe i migliori a tagliare la corda. Dobbiamo voltare pagina. Non ci sono più le risorse per quello stile di vita che avevamo immaginato e inseguito. Io non sono né un politico né un economista, ma non è necessario esserlo per capire che bisogna ricominciare tutto daccapo. E che l’unica speranza che ci resta sono i giovani».
Non è un caso, quindi, che i personaggi migliori del film siano proprio i ragazzi: Serena, Massimiliano e Luca. «Non prendo le parti di nessuno, ma mi sento più vicino a loro. Serena è la nostra eroina, vorrebbe una vita autentica, un amore vero, e quando conosce Luca, un ragazzo perdente, orfano e povero, perde la testa per lui. Perfino Massimiliano, l’insopportabile e stolto figlio di papà, mi fa tenerezza. Però ho anche molta simpatia per le due donne: Carla e Roberta».
Carla, la borghese, assomiglia alla madre di La prima cosa bella: svampita, apparentemente sciocca, ma calda e affettuosa. Virzì annuisce: «Mi piacciono le donne così, è vero. Hanno quest’energia misteriosa che mi fa venire voglia di raccontarle. Mi ricordano mia madre, un’ex cantante, donna leggendaria, mitomane, festosissima, egocentrica».
Ed è la telefonata di un’altra mamma a chiudere l’intervista: Micaela Ramazzotti, sua moglie, gli ricorda di andare a prendere il bambino a scuola. Mentre stiamo uscendo, chiedo a Virzì come lo vede, il futuro. «Dipende dai giorni. Ma il finale del mio film è più allegro di quello del libro».