Valeria Fraschetti, Il Venerdì 13/12/2013, 13 dicembre 2013
NOME IN CODICE NA-MO L’ULTRA-INDUISTA CHE VORREBBE FARSI PREMIER DELL’INDIA
MUMBAI. Dei vari difetti della vista che la colpiscono, la finanza soffre anche d’ipermetropia. Sennò come spiegarsi che il Sensex, principale indice della piazza di Mumbai, stia da tre mesi vicino ai suoi massimi storici nonostante la crescita infiacchita dell’India, l’erosione degli investimenti privati e l’inflazione che continua a prosciugare i risparmi? La Bombay Stock Exchange ci vede lungo. E sorride d’ottimismo – chiosano gli analisti – nella solida speranza che, alle elezioni della primavera 2014, a diventare primo ministro della terza economia asiatica sarà la mascotte politica del mondo industriale, Narendra Modi.
Con affettuosa brevità, i fan lo chiamano NaMo. Che significa sia «salve» sia «consegnarsi » nella lingua del Gujarat, lo Stato nordoccidentale della confederazione di cui questo carismatico leader della destra nazionalista è stato eletto tre volte consecutive chief minister dal 2001. Per fortunata casualità, poi, il nomignolo offre un’evocativa assonanza con Nano: la «macchina del popolo» da 2500 dollari che, se non fosse stato per la scaltra fattività di Modi, sarebbe arrivata sul mercato chissà quando. Si narra infatti che nel 2008, quando il distinto Ratan Tata, patron della casa automobilistica nazionale, decide di trasferire altrove lo stabilimento del West Bengala, finito in un ginepraio di controversie per vie degli espropri ai contadini, Modi gli invia un sms in sanscrito. «Suswagatham», benvenuto, recita il messaggino: e 14 mesi dopo la prima Nano esce dalla fiammante fabbrica del Gujarat. Corteggiare il business è una delle specialità del chief minister, che ogni due anni organizza per il gotha del capitalismo un summit evangelizzatore per vendere il brand Vibrante Gujarat. Non è tutta fuffa. Lo Stato ospita il 5 per cento della popolazione indiana ma fornisce il 16 per cento della produzione industriale nazionale e il 20 dell’export. Una sorta di Triveneto pre-crisi, ma esteso quanto la Francia. Dove l’elettricità non arriva a singhiozzo, i porti gestiscono un quinto dei movimenti cargo del Subcontinente e gli investimenti privati fioccano più che altrove. La sua bassa tassazione ha attratto anche giganti come Ford e GM. E anche ora che la crescita del Pil nazionale è smottata al 5 per cento, quella del Gujarat continua ad essere a doppia cifra.
Beninteso: per la sua posizione di crocevia, la terra di NaMo è effervescente da sempre. E i detrattori sostengono che all’ostentato sviluppo economico non sia seguito quello sociale, specie per la minoranza islamica. Ma Modi, 63 anni, figlio di un umile venditore di tè e uno sconfinato guardaroba di raffinati kurta, è un abile comunicatore. E ha cercato di far dimenticare il suo controverso passato di estremista indù, costruendosi una reputazione di politico efficiente. Anche se ai limiti dell’autoritarismo, è un can-do-er, uno che promette e implementa, in un Paese dove la fiducia verso una classe politica corrotta e timorosa di non scontentare nessuno è ai minimi storici, e il treno dello sviluppo frenato da una burocrazia imponderabile.
Facile intuire che l’illustre Tata non sia l’unico tycoon a volerlo primo ministro. Anche Mukesh Ambani, l’uomo più ricco d’India, ne è un ammiratore, benché la sua Reliance Industries sia stata in parte costruita con la benedizione del Congress Party. A settembre, a pochi giorni dalla candidatura di Modi del Bharatiya Janata Party (Bjp), tre imprenditori su quattro vedevano in lui la figura ideale per dare una sferzata all’economia, dopo quasi 10 anni di governi guidati in maniera sciaguratamente populista e inefficiente da Manmohan Singh, il docile premier dal turbante celeste, burattino di Sonia Gandhi secondo tanti.
Ma se nei sogni dei businessman, Modi è una sorta di Margaret Thatcher dell’India, che predica minimum government, maximum governance, negli incubi di molti resta il suo Slobodan Milosevic. Per i 150 milioni di musulmani e i sostenitori del secolarismo indiani, il suo nome resta macchiato dalle violenze del Gujarat. Era il 2002, storia recentissima: un migliaio di morti almeno, quasi tutti islamici. Un pogrom. La rabbia degenerata degli ultrà induisti, armati di tridenti di Shiva e cherosene. Volevano vendicare l’incendio (doloso) a un treno in cui morirono 58 pellegrini: diventò uno dei peggiori massacri interconfessionali dall’indipendenza. Grazie anche alla polizia, che restò a guardare. Connivenza? Ordini dall’alto? I sospetti su Modi restano pesanti, benché non sia mai stato condannato. Da allora gli Usa gli negano il visto e uno storico rispettato come Ramachandra Guha sostiene che sia unfit to rule. Ma lui, cresciuto ideologicamente tra i fascio-induisti del Rashtriya Swayamsevak Sangh, che sognano un’India senza cristiani e islamici, non ha mai mostrato rimorso. In una recente intervista ha paragonato il suo dolore per l’accaduto a quello del passeggero di un’auto che investe un cagnolino. Poco più di un sussulto. Eppure il politico che più divide in India sarà il suo probabile futuro primo ministro.
Da quando è candidato, le prospettive di vittoria del Bjp sono ancor più rosee: 162 seggi su 545, contro i 102 del Congress secondo i sondaggi. Pochi perché i nazionalisti governino senza i partiti regionali, ma più che sufficienti a infliggere una batosta a quello legato all’inossidabile dinastia Nehru-Gandhi, che probabilmente candiderà il rampollo Rahul. Il figlio 43enne di Sonia non ha il carisma di nonna Indira, ma ha un vantaggio anagrafico: la metà degli indiani ha meno di 26 anni e alle urne andranno 120 milioni di neoelettori. Resta da capire come si comporteranno di fronte a quello che l’opinionista Gurcharan Das chiama il «dilemma morale» del prossimo voto: vale la pena mettere a rischio la preziosa tradizione secolare dell’India (garantita dal Congress) in nome del buon governo e della prosperità (promesse dal Bjp)?
In attesa che il popolo dissipi i dubbi, la prosperità sta benedicendo i commercianti: tra suonerie col trillo NaMo, NaMo, gadget e kurta Modi style, vale già 50 milioni di euro il culto per il «Milosevic indiano».