Sabina Minardi, L’Espresso 13/12/2013, 13 dicembre 2013
CUOCHE RUGGENTI
Tenaci, combattive, decise ad azzerare una volta per tutte i dibattiti di genere: «V enite a vedere la fatica che facciamo ogni giorno. Poi ne riparliamo » , sfida Marianna Vitale, stella Michelin nel cuore dei Campi Flegrei.
Creative, originali, pronte a lasciare il segno nell’alta cucina: «I limiti sono quelli che ognuno si dà, non derivano dall’essere maschi o femmine», scandisce Cristina Bowerman, chef di Glass Hostaria, a Roma.
Sono colte, il più delle volte laureate, a conferma che la cucina, per loro, non è mai stata destino ma scelta di modernità. E sono tante, mai così numerose, sparse per gli angoli inaspettati della Penisola, ognuna con un’identità precisa. Per la prima volta chef integrali e non più soltanto cuoche: imprenditrici di locali e manager di se stesse. Sotto i riflettori di guide, congressi, blog.
È scoccata anche in Italia l’ora delle chef. Donne inclini a fare fuori gli ultimi stereotipi sulla femminilità ai fornelli («L’unico tocco femminile in cucina è quello della mamma», dicono in coro). Più abituate a fare che a lamentarsi per una stella mancata o per una critica di troppo.
In questi anni, mentre i colleghi conquistavano cappelli, forchette e popolarità, trasfigurati in rockstar e maître à penser, hanno studiato e sperimentato. Hanno viaggiato. Avuto figli. E oggi, tutte anagraficamente intorno ai 40 anni, compongono, inintenzionalmente, l’affresco inedito di una generazione cruciale: modelli di successo, in grado di attrarre giovanissime verso la professione. E occasione di rivincita per le altre: le pioniere che per decenni hanno lavorato (quasi) nell’ombra.
PROFESSIONE UNISEX
Sempre troppo poche, le donne sono state le grandi assenti dall’olimpo delle celebrazioni. «Per una questione culturale: il ruolo della donna ancora troppo ancorato alla tradizione. E per il modo di stare in pubblico: non siamo animali da palcoscenico», nota Bowerman, origini a Cerignola, Foggia. E svariate latitudini - mentali, non solo geografiche - attraversate, prima di approdare alla professione («Per me niente è impossibile. Il mio percorso insegna che non bisogna rassegnarsi davanti agli impedimenti»). Laurea in Giurisprudenza, un’altra in Arti culinarie a Austin, apprendistato da grafica. Dal 2006 è alla direzione di Glass, a Trastevere, due forchette Gambero Rosso, una stella Michelin, un cappello dalla Guida de l’Espresso. Ha un figlio di cinque anni e mezzo. Un compagno, nella vita e nel lavoro, col quale ha avviato un’altra sfida a Roma, che punta alla gastronomia di qualità: Romeo Chef&Baker.
« A parità di bravura, uomini e donne non hanno avuto, in questi anni, le stesse opportunità », prosegue Bowerman: «Penso a una tre stelle Michelin come Nadia Santini, e la confronto con la visibilità avuta da altri. Di Pierangelini non ne nascono tutti i giorni. Senza nulla togliere alle capacità di Cracco, di Bottura, Alajmo, Scabin e altri, gli chef emersi negli ultimi anni hanno attratto pubblico anche grazie alla capacità di gestire se stessi. E a una sorta di "sexual aurea"».
Un mestiere che si prende tutto
E oggi, che proprio la Santini, con il suo ristorante Dal Pescatore a Canneto sull’Oglio, ha ricevuto il titolo di miglior chef donna del mondo? «C’è un’inversione di rotta», conferma Bowerman: «Le donne sono invitate ai congressi, per la prima volta da vere protagoniste. Possono rappresentare un esempio. Importante, però, d’ora in poi è lavorare scindendo il sesso dalla professione. Escludo che esista una mano femminile e una maschile. Altrimenti dovrebbe anche esserci una cucina transgender e una omosessuale. Nessuno, bendato, saprebbe riconoscere se chi ha cucinato è maschio o femmina: ogni piatto dipende dall’universo dello chef, dalle sue esperienze, dalle sue memorie, da come è cresciuto, da come è stato educato». I suoi raccontano il fascino della scienza applicata alla cucina. Un approccio razionale che riserva anche alla gestione della brigata. «Alzare la voce, usare la violenza sono modi antichi di concepire il lavoro. Oggi c’è un approccio manageriale nella gestione del personale: il sistema degli incentivi funziona meglio», dice: «Fondamentale è l’attenzione psicologica alle persone: è stupido mettere insieme persone destinate a litigare. Così, studiando il carattere di chi arriva da noi, ho un turn over bassissimo». Altro che aggressioni tra i fornelli stile Gordon Ramsay o dietro le quinte malavitosi, come quelli raccontati da Anthony Bourdain: è il soft power con la brigata, la vera novità. Leadership che si conquista con l’esempio e con la sensibilità.
«Mi piace il rigore in cucina. Ma il diverso modo di comunicare, meno plateale, meno pavoneggiante di quello maschile, è una delle nostre caratteristiche. Io sono single, non ho figli, non ho animali, eppure una parte materna viene fuori istintivamente se un ragazzo alle prime armi da me commette qualche errore: allora mi fermo, respiro e controllo l’aggressività», conferma Aurora Mazzucchelli, alle redini di Marconi a Sassomarconi, ristorante di famiglia, dove è nata e cresciuta.
«Oggi c’è grande fermento sul tema della femminilità in cucina. Ma io ho scelto questo mestiere quando non era popolare: con una famiglia come la mia posso dire di aver visto la luce in cucina. Poi ho trasformato in passione quello che poteva sembrare un gioco». Totalizzante e faticoso: « È vero, la dedizione è assoluta, le giornate sono senza orario, ma questo mestiere è per me una necessità: io esprimo me stessa attraverso le mani, e le mie idee si traducono in piatti. La cucina è per definizione tempo: maturazione, lentezza, come insegnano i lieviti madre, la preparazione dei tortellini o dei fondi di cottura. Questi ritmi non si adattano alla tv, alla velocità, all’immediatezza richiesti dai palcoscenici mediatici. Mi piace questa voglia di condivisione che c’è nell’aria: per troppo tempo siamo state concentrate solo sul nostro lavoro. Credo sia una bella occasione per farci conoscere».
«Facendo questo lavoro di tempo non ne hai molto. La tua famiglia diventa la squadra con cui lavori», interviene Viviana Varese, che ha venduto il ristorante milanese Alice, gestito con la maître Sandra Ciciriello, per occuparsi di quello di Eataly Milano, apertura prevista a inizio 2014: «La mia più grande conquista è staccare due ore il pomeriggio. La domenica è sacrosanta: spengo il cellulare. E sono un’appassionata di thai chi chuan: aiuta la concentrazione».
«Nasco da una famiglia di ristoratori anch’io», prosegue Varese: «A 21 anni avevo già il personale alle mie dipendenze. Non ho avvertito le difficoltà delle donne di entrare in una grande cucina, ma le barriere ci sono eccome. Le cose stanno cambiando. Tante amicizie stanno nascendo».
L’importanza di Fare rete
È "rete" la parola magica che in questi anni ha serpeggiato nell’alta cucina: la capacità di fare network. Di collaborare, da un congresso a un evento. Di coltivare amicizie, scambiarsi saperi e competenze. È stata questa la marcia in più - lezione appresa dagli chef stranieri, iberici in primis - riconosciuta dagli stessi cuochi.
«Finora siamo state molto impegnate a fare. Ognuna per conto proprio», dice Rosanna Marziale, chef del ristorante di famiglia Le colonne di Caserta, gavetta da Gianfranco Vissani e da Martin Berasategui, appassionata della sua terra e delle sue materie prime. «Non ho il coraggio di andare via. Ma ce ne vuole anche per restare», dice. A due passi dalla reggia dove i pullman riversano turisti più interessati a una cucina veloce che al suo "ovomozzo" e gli antipasti da gustare con tanto di audioguida, Marziale è una con forte senso pratico: separa i tavoli dei gourmet da quelli delle comitive per non perdere la voglia di ricercare e di stupire. «Questo è un lavoro che ti assorbe totalmente, specie se oltre che chef sei anche proprietaria. Non c’è molto tempo per intrecciare reti. Anche se alcune chef sono anche mie amiche».
«È vero, fare rete tra persone che fanno questo mestiere è difficile», conferma Marianna Vitale, un locale stellato, Sud, a Quarto, Napoli, specchio della bellezza struggente e difficoltosa del Meridione («A Napoli inizi a lavorare prima di lavorare», dice): «Ma tra donne c’è una complicità implicita: riconosciamo, senza troppe parole, l’impegno quotidiano, la passione, la sensibilità». Laureata in Letteratura spagnola, padre cuoco di professione, una madre che l’avrebbe voluta lontana dai fornelli: «Tentava di dissuadermi in tutti i modi. Diceva di lasciar perdere, che avrei passato la vita a lavorare mentre gli amici si divertivano. Era vero: questo è un mestiere totalizzante. Vivi "scollegata" dagli altri. L’equivoco lo ha creato la televisione, mostrando angeli del focolare che non esistono nella realtà. In questo mestiere è sufficiente che un giorno manchi una persona al lavaggio dei piatti perché tutto diventi terribilmente complicato». Il marito lavora con lei, è il sommelier. Un figlio? «Non c’è tempo, adesso. Non dico che sono felice così, ma al momento non posso permettermelo».
AMORE IN SALA
Un compagno, un marito in sala o in cucina è un tratto che accomuna molte cuoche. Del sodalizio professionale con il marito mauriziano, Vinod Sookar, ha fatto un punto di forza Antonella Ricci, titolare del ristorante Al Fornello a Ceglie Messapica, Brindisi. Hanno due figlie. Lei, stella Michelin da 21 anni, è una veterana della categoria. «Diventare chef è stata per me una cosa naturale: sono nata in cucina, posso dire di avere 46 anni di attività alle spalle, ho sempre viaggiato con i miei genitori e con loro ho conosciuto i più grandi chef. Non ho mai voluto enfatizzare il mio essere donna. Anzi, per essere trattata sempre alla pari, ho insegnato all’Alma di Parma fino a un mese prima di partorire. Per conciliare lavoro e famiglia faccio enormi sacrifici: se per un evento devo spostarmi, cerco di tornare prima possibile, viaggio di notte per riuscire ad accompagnare le bambine a scuola. Credo che in cucina esista un tocco materno. Ma non lo dico per togliere qualcosa a chi è single: anzi, credo che quella libertà dia la possibilità di sperimentare di più».
LIBERE, CONCRETE, NATURALI
«La mia vita privata è incrociata con quella professionale», racconta Antonia Klugmann, chef del ristorante Venissa, sull’isola di Mazzorbo, a Burano: chef dell’anno per la guida di Identità golose 2013, premio "rivelazione dell’anno" per la Guida del Sole 24 Ore. «E non potrebbe essere diversamente: la vita lavorativa di una donna, per funzionare, deve essere in sintonia con quella privata», sostiene. Nata a Trieste 34 anni fa, liceo classico, facoltà di Giurisprudenza: «Volevo fare teatro, ero appassionata di cinema, di fotografia: cercavo strade creative. E ho scoperto la cucina». La folgorazione, e il trampolino di lancio, è un locale che a 26 anni apre col fidanzato: l’Antico Foledor Conte Lovaria, vicino a Udine, che attira critici e golosi. «Diventare chef è difficilissimo, sia per un uomo che per una donna. Ed è un mestiere straordinariamente meritocratico: il cliente non sa se chi ha cucinato è uomo o donna. Vengo da una famiglia di medici. Mamma e nonna mi hanno insegnato l’importanza di scegliere la propria strada in totale autonomia. Una libertà che intendo coltivare». Intanto, si applica su ricette sorprendenti: «Il carciofo alla liquirizia è tra quelli che mi rappresentano di più».
Pragmatiche, concrete, le chef fanno della naturalezza il loro tratto distintivo. Uno stile che accomuna la pluripremiata Annie Féolde, signora nel gotha della ristorazione e artefice dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze; la chef maremmana Valeria Piccini di Caino, a Montemerano, due stelle Michelin portate con nonchalance. E che si ritrova nelle altre: Fabrizia Meroi, in cucina sin da piccola insieme alla madre e oggi col marito, al ristorante Le soste, a Sappada, Dolomiti bellunesi. In pochi anni, un crescendo di riconoscimenti: stella Michelin, tre forchette del Gambero Rosso, nel 2012 cuoca dell’anno per la guida dell’Espresso e quest’anno al vertice, con tre cappelli. Iside De Cesare, romana, anche lei col marito a gestire La Parolina, a Trevinano, Viterbo: ha studiato Ingegneria, viene dalla pasticceria e i suoi piatti sono emblemi di misura e precisione. Beatrice Segoni, chef del Ristorante Borgo San Jacopo a Firenze; Nadia Moscardi che, con la sorella Vilma, gestisce Elodia, all’Aquila, ai piedi del Gran Sasso. E l’elenco potrebbe continuare.
«Stare con i piedi per terra significa non proporre solo cucina stravagante. Ma tenere conto delle esigenze di un locale», interviene Sara Preceruti, che Alla Locanda del Notaio di Pellio Intelvi, sul lago di Como, offre menu pensati per gli stranieri, come quello di sola pasta. E uno a sorpresa, col quale divertirsi. «Pazzia, il mio dolce di marmellata di pomodoro, gelato alla liquirizia e schiuma di latte è un gioco. Ma nella carta metto sempre anche una rassicurante crème brûlée», scherza. A fare la chef ha iniziato a 16 anni: istituto alberghiero, poi la gavetta, a partire dalla pasticceria. Oggi, che di anni ne ha 30, è al comando del ristorante. La guida Identità golose 2014 l’ha proclamata migliore chef. «Comincio a lavorare alle 9 fino a ora di pranzo. Scrivo i menu, rispondo ai clienti, preparo i food cost, contatto i fornitori. Finisco alle 15. Ma ci sono giorni che non finisco mai. Torno a casa, mi occupo del privato. Nel pomeriggio torno al ristorante ed esco a tarda sera. Farò questo lavoro finché potrò. Non ho famiglia, ho un fidanzato, ma non ho obiettivi a lunga scadenza: vivo alla giornata».
Come l’ultima enfant prodige della ristorazione capitolina: ha sfidato la romanità proponendo, tra l’altro, una decantata carbonara. E ora il suo futuro è un’incognita altamente promettente. Alba Esteve Ruiz, del ristorante Marzapane, ha 24 anni, è nata a Banyeres de Mariola, vicino ad Alicante, cucina da quando era bambina: «Mio padre è direttore di banca. Mia madre faceva la contabile. Nessuno di loro pensava a me come a una cuoca. Ma io, già da piccola, scendevo al ristorante sotto casa per imparare: pulivo l’aglio, lavavo i piatti, mi immergevo nei profumi della cucina». Poi l’istituto alberghiero, le esperienze a El Celler de Can Roja di Girona, un fidanzato italiano, che tuttora lavora al suo fianco. «Roma era per me la città del cinema», dice. Oggi che tutti impazziscono per lei, la capitale è la città del destino. «Non ho ancora progetti per il futuro. Non ho punti di riferimento del passato. Continuo a provare piatti nuovi e per me modernità vuol dire sapori trasparenti: nella mia cucina non c’è nulla di destrutturato né di nascosto».
I maschi, le donne, le differenze? Temi che non l’appassionano. Lei ha solo bisogno di far crescere la sua cucina. Generazione che sta ereditando la normalità di essere chef. E al top.