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 2013  dicembre 12 Giovedì calendario

UNA LOBBY FRENA LA RIVOLUZIONE DELLO SHALE


Se il governo degli Stati Uniti si è finora comportato come uno spettatore poco utile sul piano interno di fronte alla rivoluzione americana del petrolio e del gas, altrettanto sterile è stato il modo in cui ha affrontato questa rivoluzione sul piano internazionale.
Al culmine della rivoluzione dello shale gas, in molti ambienti politici fioccavano teorie - elaborate da prestigiosi think-tank - sull’uso del gas come strumento di politica estera, soprattutto in chiave anti-russa. Grazie all’importazione del nuovo gas americano - sostenevano queste teorie - l’Europa avrebbe potuto affrancarsi dal giogo del gas russo, riducendo Mosca a più miti consigli. Questo mantra fu espresso anche ai più alti livelli di entrambi gli schieramenti politici statunitensi, e trasmesso a molti governi europei insieme a altre leggerezze (come l’invito a un’impossibile replica della rivoluzione shale in Europa). Tuttavia, tra teoria e pratica c’è un abisso.
Tutti i produttori di gas americani vorrebbero esportare quanto più gas possibile per trarre vantaggio dai prezzi molti più alti del metano vigenti sui mercati internazionali; peraltro, i prezzi statunitensi attuali, in molti casi, non coprono i costi di molte produzioni, riducendo il potenziale di sviluppo del metano. Ma qui entra in gioco una lobby trasversale e potente - costituita dall’industria a alta intensità energetica e dalla stessa popolazione. Questa lobby si oppone a una politica spinta di esportazioni che farebbe aumentare i prezzi interni diminuendo i vantaggi di cui gode oggi l’America. Inoltre, i produttori di gas sono insensibili agli appelli dei politici riguardo alla destinazione delle future importazioni. «Non sono loro a metterci i soldi, non sono loro che vendono il gas» mi disse qualche anno fa George Mitchell, il padre della rivoluzione shale. In effetti, i produttori sono desiderosi sì di esportare gas, ma al miglior offerente, che certamente è l’Asia, e sono del tutto indifferenti alle tensioni sul gas tra Russia e Europa.
Il governo statunitense, titolare delle licenze di esportazione, cerca di mediare con difficoltà, continuando a studiare quale potrebbe essere il punto di equilibrio - quello, cioè, in cui la crescita delle esportazioni favorisce l’aumento della produzione senza aumentare troppo i prezzi interni. Una sorta di ricerca del Sacro Graal, ancora irrisolta. Intanto, le poche autorizzazioni finora concesse a impianti di liquefazione (necessari per esportare gas via mare) non consentiranno di esportare gas prima del 2016.
Mani legate e incerte anche sul petrolio. In termini di politica internazionale, sia conservatori sia democratici condividono aspirazioni vaghe dettate più dal ventre che dalla ragione: sfruttare la rinascita petrolifera americana per affrancarsi dal greggio degli "odiati" Paesi arabi e islamici e - possibilmente - distruggere l’influenza dell’Opec. Ma tutto ciò appare velleitario e perfino poco utile.
In realtà, i principali esportatori di greggio negli Stati Uniti sono Canada, Venezuela e Messico, mentre le importazioni dai Paesi arabi sono inferiori al 20% del totale dei consumi di greggio statunitensi. Greggio che viene acquistato dai raffinatori per pura convenienza economica, senza che il governo possa dire niente, né ora né in futuro.
Per il momento, i Paesi arabi hanno sopperito al minore spazio sul mercato americano puntando sull’Asia. Paradossalmente, il Paese che sta subendo maggiori problemi dal boom del petrolio americano è il Canada, da sempre considerato un "quasi" stato americano in termini di sicurezza. Non a caso, le maggiori tensioni sull’oro nero sono proprio con Ottawa, poiché Washington finora ha rifiutato - per motivi ambientali - di dare il via libera alla costruzione di un oleodotto (Keystone XL) che consentirebbe al greggio canadese di trovare nuovo spazio nel mercato americano. Il problema è che senza nuovi oleodotti diretti in territorio americano la produzione canadese non può crescere, nonostante abbia un potenziale enorme. D’altra parte, il Canada non ha altre vie di export al di fuori degli Stati Uniti, e i gruppi ambientalisti canadesi si oppongono alla costruzione di oleodotti che trasportino il petrolio sulle coste del Paese - da cui potrebbe trovare uno sbocco in Asia o in Europa.
La rigidità americana fa il gioco della Cina, affamata di risorse e pronta a emettere piede ovunque se ne determini l’occasione. Pechino ha già fatto accordi con il Canada, ma anche con altri fornitori tradizionali degli Stati Uniti, come il Venezuela, rendendo meno sicuro l’approvvigionamento futuro di petrolio da quello che un tempo Washington considerava come giardino di casa, cioè l’intero emisfero occidentale.
Quanto all’Opec, gli Stati Uniti la vedono come una manipolatrice dei prezzi del greggio in mano a paesi ostili, e per questo ne auspicano la fine. Tuttavia, l’Opec nella sua storia ha sempre avuto pochissimo successo nel manipolare i prezzi - a dispetto di quanto ritenuto dall’immaginario collettivo. Ancora oggi, è incapace di prendere decisioni coerenti rispetto a una produzione mondiale che cresce troppo rispetto a una domanda che langue. Se poi gli accordi transitori sul nucleare iraniano sfociassero in un’intesa definitiva, i problemi dell’Opec si aggraverebbero, perché l’Iran potrebbe tornare a esportare quasi 1,5 milioni di barili al giorno (mbg) di greggio che oggi non arrivano sul mercato per effetto delle sanzioni internazionali. Questa prospettiva irrita un alleato scomodo ma necessario degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita.
In effetti, al momento è Riad che sta "tenendo" il mercato, rinunciando a produrre circa 3 mbg per sostenere i prezzi. Ma l’eventuale revival dell’Iran, la crescita della produzione irachena, il ritorno alla normalità della situazione in Libia, creerà un eccesso potenziale di offerta che i sauditi da soli non potranno gestire. Qualcuno potrebbe pensare che è proprio questo che vogliono gli Stati Uniti: mettere tutti contro tutti all’interno dell’Opec affinché l’Organizzazione esploda e il mondo sia inondato di greggio, con conseguente tracollo dei prezzi. Un po’ come accadde nel 1986. Ma un tracollo del greggio metterebbe in serio pericolo la stessa produzione di shale oil statunitense. Per qualche anno almeno, infatti, il boom del greggio americano necessita di prezzi sufficientemente elevati per poter dispiegarsi a pieno regime. Intanto, quello stesso boom crea grandi difficoltà anche a quei Paesi africani, come Nigeria e Angola, verso cui gli Stati Uniti avevano varato una politica di attrazione. Il greggio leggero di quei Paesi trova sempre meno spazio nel mercato statunitense, senza che la Casa Bianca possa farci nulla, se non veder diminuire la sua potenziale influenza su quegli stessi paesi. Infine c’è l’Iraq. Ai tempi della defenestrazione di Saddam, tutti pensarono che la vera ragione dell’azione militare statunitense fosse il controllo delle ricchissime riserve di petrolio del paese. Al contrario, i giacimenti iracheni oggi sono in gran parte affidati allo sviluppo di società non americane, mentre l’ingresso della Exxon nel Kurdistan iracheno ha sollevato forti tensioni tra Bagdad (che non riconosce alcuna autonomia al Kurdistan) e Washington.
Alcuni politici, soprattutto della destra americana, suggeriscono di lasciare il Golfo Persico e il resto del mondo ai loro problemi, poiché l’America non avrà più bisogno di loro grazie al boom americano del petrolio e del gas.
Ma tutti i politici più coscienziosi sanno che non è così: solo che nessuno, fino a oggi, è riuscito a trovare la quadratura del cerchio.