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 2013  dicembre 12 Giovedì calendario

“IL MIO TEATRO: MEGLIO VIVERE FREGATI CHE FREGARE”


Caro Strehler sono oltre quarant’anni che stai alla ribalta: vogliamo tentare un bilancio?
Biagi ti ripeto quello che ti ho detto già in altre occasioni: mi spiace non avere strumenti per realizzare quello che vorrei. Quando parli a cinquecento persone invece che a mille, perdi; quando non hai margini, perché devi sopravvivere, bruci delle possibilità. Questo “Piccolo Teatro” non è molto cambiato da allora: è sempre allo stesso posto in cui Paolo Grassi e io penetrammo una mattina del 1947, dopo aver rotto il catenaccio, un cinema per coppiette, e i camerini erano stati celle di tortura. Lo Stato non aiuta il teatro e la cultura in generale.
Com ’è la spinta? Non c’è in chi sale sul palcoscenico, come in chi scrive, un po’ di voglia esibizionistica, il desiderio di imporsi?
Non credo alla vocazione per quello che si attiene al mestiere di interprete, solamente i poeti la possiedono, per gli altri è soltanto una questione di abitudini. Nel 1940 avevamo vent’anni: che ragazzi eravamo, cosa sapevamo? Ma della vita poco, della politica direi niente, se non gli aspetti esteriori della propaganda, alla quale abbiamo partecipato, il più delle volte, per non andare a scuola. Nelle nostre sfilate premilitari, non c’era niente di politico.
Chi era il Duce?
Per me era una specie di personaggio teatrale fra il tragico, il buffo e il dialettale. Io triestino lo comprendevo a fatica.
Del cinema di quel tempo cosa ricordi?
Il cinema di allora per me era Alida Valli. Ti ricordi in quel bellissimo film Stasera niente di nuovo, quando cantava: “Ma l’amore no, l’amore mio non può...”, lei era... La fidanzata di tutti noi... Tutti l’abbiamo amata.
Che cosa hanno rappresentato per te le donne?
Una parte fondamentale della mia vita. Le amo, le stimo più degli uomini, sono più vicine alla verità, non mi hanno mai deluso.
Giorgio, la nostra è stata un generazione felice o infelice?
Enzo, la giovinezza ha sempre un fondo di felicità che travolge tutto il resto, ma in fondo la nostra generazione è stata notevolmente infelice, essere presi a vent’anni, come è successo a noi, portati in guerra: io ero ufficiale e mandavo contro il fuoco nemico dei disgraziati che avevano quindici anni più di me, senza sapere per quale ragione, senza scopo, senza nessuna ideologia o peggio con un’ideologia contraria.
Che illusioni avevi alla fine della guerra?
Io ero convinto, anche tu, eravamo tutti convinti che questo nostro paese sarebbe cambiato, che si sarebbe costruita una società diversa, più liberalsocialista, eravamo pieni di utopie. Di quelle utopie c’è rimasto ben poco, ma noi continuiamo a combattere, ad andare avanti lo stesso. La nostra generazione è fatta così.
Com ’è che sei diventato socialista?
Io stavo con quelli del movimento di “Corrente”, nato nel ’38, contro la politica culturale del fascismo: Birolli, Treccani, Joppolo, Grassi. Sono arrivato al socialismo senza fatica, attraverso l’amicizia. Le persone che stimavo, guarda un po’, erano tutte dalla stessa parte. Allora era conquista anche un libro. Una convinzione è sempre stata in me molto forte, che mi ha permesso di non mollare, quella che Brecht riassume in poche parole: “La verità è concreta”. Sotto la violenza della dittatura fascista si pensò a un teatro diverso, e poi lo si è fatto.
Sei stato anche al Senato per il Psi, perché nel 1987 lo hai abbandonato?
Sono stato nel Psi per quarant’anni. Il mio partito era quello di Nenni e Pertini, non quello di Craxi. Io non ho abbandonato il Partito socialista è lui che ha abbandonato me. A un certo punto era diventato schizofrenico . La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato a Rimini: prima i compagni hanno applaudito Mancini che criticava aspramente la gestione Craxi e poi lo hanno votato per acclamazione. Era diventato un partito in cui non era più possibile esprimere le proprie idee. Il socialismo nel quale ho sempre creduto non è quello del Psi.
Tu hai conosciuto grandi autori: Torton Wilde, Dürrenmatt, Wilder, Salacrou, Brecht.
Brecht che uomo era?
Era un uomo molto complicato e complesso, molto ironico, sempre sorridente, lasciava parlare, interveniva, comprendeva. Non voleva essere chiamato maestro. Brecht era un monaco, viveva in una casa estremamente povera, aveva una stanza con un letto e vicino una pila enorme di libri, erano tutti gialli, lui leggeva solo gialli, lo faceva per distrarsi. Di lui è stata data una visione molto diversa da quella reale, prevalentemente per ragioni politiche. Quello che mi ha più colpito era il suo essere sempre alla ricerca del dubbio e questo lo ha insegnato anche a noi che abbiamo avuto la fortuna di averlo come maestro e che eravamo giovani, sempre o pro o contro, o di qua o di là, lui ci diceva: “Pensateci su, forse non è proprio così...”.
Oltre a Brecht chi sono stati i tuoi maestri?
Jacques Copeau, pur non avendolo mai conosciuto, da lui ho appreso il testo come base, inteso come matrice di una teatralità che si divide in luci, suoni, parole. Luis Jouvert, una specie di cupo fanatico, un giansenista come Manzoni, sempre teso a salvare un’anima. Mi ha liberato dalla crisi demoniaca che tutti gli uomini di teatro attraversano, quella della creazione, di credersi i padroni del mondo. Jouvert mi ha dato il coraggio di sentirmi umile.
Come hai iniziato?
La mia è un’esperienza, appunto, estremamente umile. Ho cominciato come allievo, poi sono entrato in una compagnia girovaga. Il mio primo ruolo è stato quello del servo muto che stava a lato di una porta, poi salii un po’: due frasi, la parte dell’amoroso. Ero culturalmente e politicamente lontano dai miei compagni di allora. Quelli che erano figli d’arte mi guardavano con sospetto.
Hai fatto oltre duecento spettacoli, tra prosa e lirica. C’è un prediletto?
Non vorrei essere retorico: tutti i figli sono uguali. I registi aiutano a partorire i bambini degli altri, e qualche volta fanno anche morire il piccino. Per me restano alcune costanti comuni nei miei lavori, per esempio l’indagine sull’uomo. Albergo dei poveri di Maksim Gorkij, Riccardo II di Shakespeare. Autori come Cechov, Camus, personaggi come Danton e Robespierre. L’opera da tre soldi di Brecht e Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni.
Cos’è un attore?
È uno strumento cosciente, e dovrebbe sapere di esserlo.
Perché uno vuole recitare?
Il drammaturgo russo Nikoliaj Evreinov ha detto che l’uomo non vive ma recita. Prima di tutto recitiamo con noi stessi, la nostra è una rappresentazione continua, solo in qualche raro momento siamo nudi. Ci mettiamo di fronte agli altri per esibirci, a volte per dire cose importanti. Forse la verità è che ci sono individui portati a diventare mezzi di comunicazione, a provocare un contatto tra persone.
Che cos’è per te il pubblico?
Jouvert diceva che non ci può essere teatro senza successo: anche con i fischi, con le bastonate, ma essere insieme. È l’unica misura e la sola ragione: capire, fallire, non capire. L’aneddoto più spaventoso è quello del re bavarese che fece costruire un teatro per lui solo.
E la critica?
So quello che dovrebbe essere: un maggior aiuto per conoscersi, individuarsi, anche attraverso incomprensioni. Quello che taluni critici non hanno, è un maggior senso di responsabilità di fronte a ciò che giudicano, un maggior impegno in quello che fanno.
Giorgio, tenta un tuo ritratto.
Uno che ha cercato di fare un teatro che fosse l’intuizione di un modo diverso di essere nella società, che prefigurasse qualcosa che non c’è ancora. Umanamente uno che si è dato molto agli altri, e anche alle altre, che ha dilapidato molto di sé, ma che ha avuto anche tanto in cambio. Uno che ha sempre pensato: meglio vivere fregati che fregare.
Che ne pensi della vecchiaia?
Enzo, sinceramente, non riesco a immaginarmela. Penso di non sapere invecchiare bene. È una riflessione importante per chi è della nostra generazione, lo abbiamo accennato prima, noi paghiamo la giovinezza che non abbiamo mai avuto. Io non sono mai stato a un veglione. Uno dei lavori che sto facendo su di me attraverso il teatro, è quello di conquistare la capacità di accettarmi.