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 2013  dicembre 12 Giovedì calendario

MESSI: «HO UN SOGNO, ANZI NE HO DUE»

Scusi, Messi, ma in occa­sione dell’udienza prima di Italia-Argentina l’ago­sto scorso, perché non ha parlato col Papa co­me ha fatto Balotelli?

“Balo” è stato più furbo di me. Lui ha parlato col Papa per cin­que minuti. Io non sono riuscito a dribblare il servizio d’ordine...

Com’era durante l’udienza?

Di pietra. Non riuscivo qua­si a respirare. Mai vissuto in vita mia mo­menti come quello. È sta­ta una gior­nata uni­ca.

Che ricordo porterà del Papa?

Il suo sorriso. Il suo tono di voce. Le pa­role. Mi ha con­quistato. Sono sempre stato cattolico, anche se po­co praticante.

Non va mai a Mes­sa?

Poco. Ma Papa France­sco mi ha rafforzato nella fede. E poi si chiama Jorge, come mio padre.

Se fosse riuscito a parlar­gli come ha fatto Balo­telli?

Gli avrei portato i saluti della mia fa­miglia e chiesto una benedi­zione speciale per il mio piccolo Thia­go di dieci mesi. Avevo assistito al par­to e avrei voluto raccontarlo al Papa.

Che cos’altro avrebbe detto al Ponte­fice?

Di continuare il suo impegno per i più vulnerabili e per chi soffre. Soprattut­to per i bambini che abbraccia appe­na può.

Anche lei si occupa di bambini...

Ho sempre amato i bambini. Colla­boro con l’Unicef e sono stato ad Hai­ti dopo il terremoto. Al ritorno, è nata la LeoMessi Foundation. Vorrei resti­tuire ai bambini un po’ della fortuna che ho avuto.

Ha uno slogan?

“Scegli di credere”.

In che cosa?

Che si può farcela.

Qual è il suo ruolo?

L’ho capito dopo una visita in un ospedale per bambini: Vo­glio aiutarli moralmente con la mia presenza. Funziona? Il sorriso che mi regalano lo conferma ogni volta. Non ser­vono tante parole. Quando mi vedono scoprono la forza di continuare a lottare.

Lei ne sa qualcosa...

Ho lottato molto per realizzare il mio sogno. Ora metto la mia po­polarità al servizio di chi è più de­bole. In cambio ricevo la certezza di avere aiutato un bambino mala­to a sperare nella guarigione.

Quanto tempo dedica alla Fonda­zione?

Quello che mi lascia il calcio. Ma l’im­pegno e l’energia sono gli stessi. Il pro­getto a cui tengo di più ora è una scuo­la di calcio a Rosario, nella mia città natale. A Barcellona invece abbiamo costruito un parco giochi nell’ospe­dale Vall de Hebrón.

Finanzia anche la ricerca?

Ci occupiamo della lotta contro il mal de chagas , una malattia tropicale. E creiamo borse di studio per i medici argentini che vengono a Barcello­na a imparare a curare i tumori

dei bambini.

Lei che bambino era?

Un po’ piccolino. E da sempre inna­morato del calcio, come tutti in Ar­gentina. La prima partita? A cinque anni, contro quelli più grandi. Avevo fatto due gol.

L’aveva accompagnata suo padre?

No, mia nonna. Portava anche mio fratello Rodrigo. Lui era più bravo di me. Un incidente gli ha fermato la car­riera.

Anche lei, in quanto a sfortuna, non ha scherzato...

A 11 anni mi consideravano già mol­to bravo. Ma all’improvviso avevo smesso di crescere. Colpa di un or­mone, la somatotropina. Serviva una cura costosissima ma la mia famiglia era modesta, non povera, ma non po­teva permettersi la cura della cresci­ta.

Ed ecco il “miracolo”...

Arriva il direttore sportivo del Barcel­lona, mi vede giocare e mi fa firmare subito il contratto.

Il famoso contratto sul tovagliolo di carta?

Mai esistito. Quella è una leggenda giornalistica.

Qual era l’ingaggio?

Duemila euro al mese.

La sua vita comunque cambiò...

Avevo 13 anni. E da quel momento le mie giornate a Barcellona erano fatte di allenamenti e ospedale.

Nostalgia della famiglia?

Era con me. Mi seguiva in tutto.

Tanto calcio, e la scuola?

Ho fatto le elementari e il primo an­no delle medie a Rosario, gli altri in Spagna. Mi mancano gli ultimi due anni delle superiori per andare all’u­niversità.

Un giorno li farà?

Magari quando smetto col calcio. Non riuscivo a fare le due cose assieme.

Intanto, è diventato il calciatore più forte del mondo. Me­glio di Mara­dona?

Maradona è unico. Però il paragone mi lusinga.

È vero che gli unici libri che legge so­no sulla vita del Pibe de oro?

Non sono molto amico dei libri. Ma ho letto “Cent’anni di solitudine”. Gabriel García Márquez resta una guida.

I libri non li legge, però li fa.

Domenico Dolce mi ha convinto a fa­re un libro di fotografie. Il ricavato an­drà in beneficenza.

Con chi si è consigliato?

In famiglia. E con Maradona.

Siete molto amici?

Lo sento spesso. Mi dà dei consigli.

Beh, su certi argomenti non è un buon maestro...

So dove sbaglia e glielo dico in faccia.

Segue i suoi consigli anche sulla fa­miglia?

Ho sposato la ragazza che avevo in­contrato a sei anni. In questo sono molto diverso da Diego.

Che figlio è Lionel Messi?

Sono molto attaccato ai miei genito­ri. Che mi trattano ancora come un bambino.

Dove abitano?

Mia madre non ha mai voluto lascia­re la casa al Barrio dove sono nato.

Un giorno ci tornerà?

Mi piacerebbe. Non l’ho mai dimen­ticato.

In casa parlavate italiano?

No. Però mio padre e mia madre qual­che volta ricordavano i loro paesi d’o­rigine, in Italia.

A casa, riesce a staccare col calcio?

Mi costringe mia moglie. Non capi­sce il calcio e non lo vuole nemmeno guardarlo in tv.

L’ultima volta che ha pianto?

Quando è nato Thiago dopo un par­to difficile.

Lacrime di gioia. E quelle di dolore?

Quando è morta mia nonna.

Quella che l’accompagnava alle par­tite?

Sì. A lei dedico i miei gol.

Lei è un esempio per molti giovani.

Me ne rendo conto quando vado per strada.

Si sente prigioniero del successo?

Un po’. Ma cerco di dare il buon e­sempio ai giovani. Come? Dimo­strando che i soldi non sono tutto.

Che cosa conta?

La famiglia. L’onestà. La fede.

A questo punto, ha realizzato tutti i suoi sogni?

Manca sempre l’ul­timo: vincere i Mon­diali in Brasile.

A chi dedicherebbe la vittoria?

A Papa Francesco. Così final­mente potrò parlargli.

Come Balotelli?

Molto di più.