Franca Porciani, Corriere della Sera 12/12/2013, 12 dicembre 2013
STUDIO SUL CERVELLO DEI PILOTI: ANCHE I NEURONI HANNO IL TURBO
Il cervello dei piloti di Formula uno assomiglia un po’ a quello dei golfisti e dei musicisti. Ma ha anche la prontezza di quello di un tiratore scelto; rispetto ai comuni mortali riesce – per talento o grazie all’esercizio, non lo sappiamo ancora – a svolgere compiti mentali impegnativi a scartamento ridotto, ovvero a basso consumo di energia cerebrale. Supercervelli? Parola grossa, ma in qualche modo sì. Lo ha scoperto uno studio realizzato da Pietro Pietrini, neuroscienziato, direttore del Centro di Biochimica clinica dell’Università di Pisa con il suo allievo Giulio Bernardi, in collaborazione con il centro per il supporto atletico e medico ai piloti di F1 «FormulaMedicine» creato a Viareggio nel 1989 da un medico sportivo appassionato di corse, Riccardo Ceccarelli.
Un incontro senza precedenti: il primo capace di utilizzare a fini di ricerca i nuovi metodi di imaging che ci dicono quali aree del cervello si attivano quando si svolge una certa azione, il secondo in grado di reclutare fra la sua clientela — che annovera Fernando Alonso, Felipe Massa, Jarno Trulli, Robert Kubica, i team Toyota, Renault — piloti disponibili a sottoporsi ai test. «E se gli esami non sono niente di pesante e di difficoltoso, lo diventa eseguirli con la testa dentro un rumoroso apparecchio per la risonanza magnetica funzionale» racconta Ceccarelli, «e per un tempo che sfiora le due ore». Ma i due ci sono riusciti, assicurando agli undici piloti che hanno accettato la prova, la certezza dell’anonimato.
La ricerca, pubblicata sulla rivista «PloS ONE», e finanziata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, prevedeva che gli stessi test venissero svolti anche da undici volontari sani, lontani dal mondo delle corse. Il primo esame simulava una griglia di partenza: posti davanti a un semaforo rosso i piloti dovevano premere un pulsante alla comparsa del verde, svelando la velocità dei loro tempi di reazione. Il secondo era un test di integrazione visiva e spaziale: sullo schermo luminoso comparivano due cerchi rosso e blu, e palline di entrambi i colori che si muovevano a caso; i piloti dovevano premere un pulsante con la mano sinistra quando le rosse approdavano dentro il cerchio rosso, farlo con la destra quando le blu entravano nel cerchio blu.
«La cosa più curiosa» racconta Pietrini, «è che piloti e comuni mortali hanno dato prestazioni quasi sovrapponibili. Ma la visione del loro cervello con la risonanza magnetica funzionale ci ha permesso di scoprire qualcosa di eccezionale: per garantire la stessa performance dei soggetti normali i piloti usano “meno cervello”; attivano aree molto più circoscritte. Noi, scienziati, per definire questo fenomeno parliamo di “efficienza dei neuroni”, che mi pare renda bene l’idea di un allenamento mentale che riesce a velocizzare i tempi di reazione e di controllo visivo perché il cervello si abitua ad usare i circuiti giusti. Si è anche visto che le connessioni cerebrali sono più elastiche e robuste. Qualcosa di simile è stato rilevato negli arceri, in chi fa immersioni impegnative, ma soprattutto nei musicisti (i più studiati) e nei giocatori di golf».
La domanda che si pone a questo punto è se questa capacità di fare «economia mentale» sia frutto dell’allenamento o di qualcosa di innato, di una selezione naturale (fa questo mestiere chi è predisposto alla velocità e al controllo delle proprie emozioni). Ceccarelli propende per la prima ipotesi: «Un lavoro come questo sfata un luogo comune del mondo della F1: che artefice del successo sia la macchina e che su quella, e solo su quella, si debba lavorare. Alla luce dei dati emersi da questa ricerca, diventa terreno di studio per il futuro l’allenamento mentale: mi pare che si aprano nuovi scenari. I piloti sono seguiti, al massimo, da un fisioterapista e pochi team hanno un medico dedicato. È ora di cambiare».
Franca Porciani