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 2013  dicembre 12 Giovedì calendario

ADDIO A GIPO, IL POETA GENTILE CHE CANTAVA L’ANIMA DI TORINO


Gipo Farassino non c’è più. Se n’è andato ieri mattina. A marzo avrebbe compiuto 80 anni. Nell’ultima alba gli era vicina, nella casa torinese, la figlia Valentina, il solo grande amore che gli restava dopo che il destino gli aveva rubato prima l’altra figlia, Caterina, e poi la moglie. Gipo aveva reagito a quei colpi feroci da gladiatore qual era. Aveva creato una fondazione benefica in memoria di Caterina. Ed era tornato sul palcoscenico, e nell’abbraccio del pubblico aveva ritrovato la voglia di vivere. Ancora pochi mesi fa, quando già la malattia lo consumava, mi raccontava di nuovi progetti, di nuove sfide.
Ecco, il più è detto. Non è facile scrivere della morte di un uomo a cui volevo un bene profondo. Ma un’ora fa una persona cara mi ha mandato un Sms che mi ha incoraggiato: «Un amico che se ne va così lontano val bene un articolo». È vero. Gipo è andato lontano, e chissà come gli mancherà la sua Torino. Ricordate? «Questa mia città che strozza il canto in gola, ti spinge ad andar via…».
Era felice, Gipo, che Torino non fosse più quella. Lui cantava l’anima di Torino: e adesso che quell’anima è diventata a colori, se la godeva con l’entusiasmo dei ragazzi. Io, in tanti anni d’amicizia, non l’ho mai visto vecchio.
Quando muore un artista gli articolisti ne elencano i successi, ne descrivono la carriera. Mi pare così inutile, in tempi di Wikipedia. E ancor più inutile per Gipo, la cui carriera di chansonnier e attore è scritta nella memoria di ogni piemontese. Dovrei citarvi le canzoni che fanno la nostra identità – Matilde Pellissero, Sangon Blues, ’L 6 ‘d via Cuni - ora ironiche, ora soffuse di malinconia, e le sue prove teatrali e cinematografiche con registi come Massimo Scaglione e Edmo Fenoglio, e le esperienze televisive tra cui un memorabile Travet al fianco di Ileana Ghione…
E dovrei anche parlare della sua decisione, negli Anni Novanta, di darsi alla politica, con la Lega, arrivando al seggio di europarlamentare e quindi a un assessorato. Fu una parentesi: Gipo la chiuse quando capì che non era il suo mondo. Lui diceva ciò che pensava, e pensava ciò che diceva. Non poteva funzionare. Però una cosa voglio scriverla, del Farassino politico: ne ho sempre ammirato l’onestà.
E mi divertiva sapere – me l’aveva rivelato sua figlia Caterina, magnifica fotografa rock – che sulla sua scrivania di assessore leghista teneva una foto degli Africa Unite. La cosa però non mi sembrava stravagante: erano musicisti che, come lui, avevano trovato anche nel piemontese una lingua per far canzoni e poesia.
Fu Caterina ad avvicinarlo ai suoi amici rockettari. Negli ultimi tempi Gipo si faceva accompagnare nei concerti da giovani talenti che lo stimavano e lo consideravano un nume tutelare. Per i Subsonica, e per tanti altri, era un’icona; ma anche un collega. Lo invitavano nei club, ai festival alternativi. Un mondo che amò, riamato. Perché l’esistenza di Farassino è stata piena d’amore. Amore per la famiglia; per il palcoscenico; e per Torino.
La Torino delle barriere, la Torino povera e dignitosa del dopoguerra, la Torino trasformata dalla grande immigrazione. La Torino delle sue canzoni, e dei suoi racconti. Racconti che qualche anno fa gli chiesi di scrivere per TorinoSette, il settimanale de La Stampa. Era restio, imbarazzato: lo convinsi, e mi ricambiò con storie meravigliose. Storie che divennero anche un libro, «Viaggiatori paganti».
Mentre scrivo, non faccio che pensare agli attimi trascorsi con Gipo. Lo rivedo il giorno dei funerali di Caterina - il volto da duro di barriera rigato di lacrime rare - ricevere con uguale, sconsolata riconoscenza l’abbraccio leghista di Umberto Bossi e quello subsonico di Max Casacci. Lo rivedo una sera al Teatro Erba, per uno spettacolo importante, il suo ritorno alle scene dopo la tragedia; ed è felice e circondato d’affetti. Lo rivedo una domenica d’estate, al bar della piscina di Nizza Monferrato, mentre ci arrivano le risate dei bambini che giocano in acqua, e lui mastica il toscano e ha gli occhi allegri perché gli piacciono i bambini.
Una volta andammo a cena in un ristorante fra i campi e poi venne in collina e rimanemmo a goderci il fresco della notte sotto il portico, e lui scherzava con mia madre, «Signora – le diceva – siamo quasi coscritti, ma lei è giovanissima; e mia madre rideva. Era gentile, galante, buono. Un poeta sensibile e un uomo semplice. Mi mancherà, finché non verrà il tempo per rincontrarci.
Gipo Farassino non c’è più. Se n’è andato ieri mattina. A marzo avrebbe compiuto 80 anni. Nell’ultima alba gli era vicina, nella casa torinese, la figlia Valentina, il solo grande amore che gli restava dopo che il destino gli aveva rubato prima l’altra figlia, Caterina, e poi la moglie. Gipo aveva reagito a quei colpi feroci da gladiatore qual era. Aveva creato una fondazione benefica in memoria di Caterina. Ed era tornato sul palcoscenico, e nell’abbraccio del pubblico aveva ritrovato la voglia di vivere. Ancora pochi mesi fa, quando già la malattia lo consumava, mi raccontava di nuovi progetti, di nuove sfide.
Ecco, il più è detto. Non è facile scrivere della morte di un uomo a cui volevo un bene profondo. Ma un’ora fa una persona cara mi ha mandato un Sms che mi ha incoraggiato: «Un amico che se ne va così lontano val bene un articolo». È vero. Gipo è andato lontano, e chissà come gli mancherà la sua Torino. Ricordate? «Questa mia città che strozza il canto in gola, ti spinge ad andar via…».
Era felice, Gipo, che Torino non fosse più quella. Lui cantava l’anima di Torino: e adesso che quell’anima è diventata a colori, se la godeva con l’entusiasmo dei ragazzi. Io, in tanti anni d’amicizia, non l’ho mai visto vecchio.
Quando muore un artista gli articolisti ne elencano i successi, ne descrivono la carriera. Mi pare così inutile, in tempi di Wikipedia. E ancor più inutile per Gipo, la cui carriera di chansonnier e attore è scritta nella memoria di ogni piemontese. Dovrei citarvi le canzoni che fanno la nostra identità – Matilde Pellissero, Sangon Blues, ’L 6 ‘d via Cuni - ora ironiche, ora soffuse di malinconia, e le sue prove teatrali e cinematografiche con registi come Massimo Scaglione e Edmo Fenoglio, e le esperienze televisive tra cui un memorabile Travet al fianco di Ileana Ghione…
E dovrei anche parlare della sua decisione, negli Anni Novanta, di darsi alla politica, con la Lega, arrivando al seggio di europarlamentare e quindi a un assessorato. Fu una parentesi: Gipo la chiuse quando capì che non era il suo mondo. Lui diceva ciò che pensava, e pensava ciò che diceva. Non poteva funzionare. Però una cosa voglio scriverla, del Farassino politico: ne ho sempre ammirato l’onestà.
E mi divertiva sapere – me l’aveva rivelato sua figlia Caterina, magnifica fotografa rock – che sulla sua scrivania di assessore leghista teneva una foto degli Africa Unite. La cosa però non mi sembrava stravagante: erano musicisti che, come lui, avevano trovato anche nel piemontese una lingua per far canzoni e poesia.
Fu Caterina ad avvicinarlo ai suoi amici rockettari. Negli ultimi tempi Gipo si faceva accompagnare nei concerti da giovani talenti che lo stimavano e lo consideravano un nume tutelare. Per i Subsonica, e per tanti altri, era un’icona; ma anche un collega. Lo invitavano nei club, ai festival alternativi. Un mondo che amò, riamato. Perché l’esistenza di Farassino è stata piena d’amore. Amore per la famiglia; per il palcoscenico; e per Torino.
La Torino delle barriere, la Torino povera e dignitosa del dopoguerra, la Torino trasformata dalla grande immigrazione. La Torino delle sue canzoni, e dei suoi racconti. Racconti che qualche anno fa gli chiesi di scrivere per TorinoSette, il settimanale de La Stampa. Era restio, imbarazzato: lo convinsi, e mi ricambiò con storie meravigliose. Storie che divennero anche un libro, «Viaggiatori paganti».
Mentre scrivo, non faccio che pensare agli attimi trascorsi con Gipo. Lo rivedo il giorno dei funerali di Caterina - il volto da duro di barriera rigato di lacrime rare - ricevere con uguale, sconsolata riconoscenza l’abbraccio leghista di Umberto Bossi e quello subsonico di Max Casacci. Lo rivedo una sera al Teatro Erba, per uno spettacolo importante, il suo ritorno alle scene dopo la tragedia; ed è felice e circondato d’affetti. Lo rivedo una domenica d’estate, al bar della piscina di Nizza Monferrato, mentre ci arrivano le risate dei bambini che giocano in acqua, e lui mastica il toscano e ha gli occhi allegri perché gli piacciono i bambini.
Una volta andammo a cena in un ristorante fra i campi e poi venne in collina e rimanemmo a goderci il fresco della notte sotto il portico, e lui scherzava con mia madre, «Signora – le diceva – siamo quasi coscritti, ma lei è giovanissima; e mia madre rideva. Era gentile, galante, buono. Un poeta sensibile e un uomo semplice. Mi mancherà, finché non verrà il tempo per rincontrarci.