Maria Grazia Coggiola, La Stampa 12/12/2013, 12 dicembre 2013
“IO, OMOSESSUALE DA OGGI TORNO AD ESSERE UN FUORILEGGE IN INDIA”
Ho pianto quando ho saputo della sentenza che reintroduce il reato di omosessualità, è una violazione dei diritti umani». È ancora sotto choc Ashwin Mehra, omosessuale di 40 anni, che da ieri, come milioni di altri gay indiani, si deve di nuovo nascondere dopo la decisione della Corte Suprema di ripristinare l’articolo 377 del codice penale che punisce i rapporti sessuali «contro natura».
Mehra è seduto in un ristorante vuoto «per poter parlare liberamente». «Il mio aspetto è quello di un eterosessuale - dice - ma appena sanno che non sono sposato, capiscono che c’è qualcosa di strano e allora mi guardano male». Sembra incredibile, ma in India, patria del trattato del Kamasutra e dove i templi traboccano di copulazioni, la sessualità resta un tabù. Si dice che la colpa è degli inglesi che nel 1860 hanno imposto la legge anti-gay, abrogata nel 2009 da una sentenza dell’Alta Corte di Delhi e salutata come una svolta storica dalla comunità Lgbt degli omosessuali, lesbiche e transessuali.
«In questi 4 anni ci sono stati dei progressi – ammette Ashwin – soprattutto a New Delhi e Mumbai. Ma sul posto di lavoro, tanto per fare esempio, c’è ancora una assoluta discriminazione». Lui stesso ha dovuto abbandonare il suo impiego. «Non potevo più sopportare gli sguardi, le risatine di tutti». Lo stigma sociale è così forte che gli omosessuali indiani si sposano con lesbiche per diventare «accettabili» agli occhi della società.
Ovviamente più si scende nella scala sociale e più è difficile, se non impossibile, vivere in libertà la propria sessualità senza diventare un «pariah». «Mia madre è cristiana e mio padre è indù – racconta ancora – e loro per primi si sono ribellati alle convenzioni sociali. Ho la fortuna di avere una famiglia che mi ha sostenuto». Ma l’appartenenza all’«elite» di New Delhi non ha risparmiato ad Ashwin, che fino a poco tempo fa era un transgender di nome Maria, umiliazioni come quella di essere respinto dal più prestigioso club sportivo della capitale, il Gimkana, dove c’è una lista di attesa di oltre 30 anni per diventare membri. «Mi impedivano di entrare vestito da donna – spiega – e mi dicevano che mi avrebbero espulso, ma due anni fa ho restituito la mia membership e poi sono andato a dire alla stampa che erano anti gay».
Nella capitale, a Mumbai, Calcutta e Bangalore ieri le associazioni Lgbt sono scese in strada per protestare contro la decisione della Corte Suprema criticata anche da Amnesty International e Human Rights Watch. Tra l’altro, è curioso che a emettere la sentenza sia stato un giudice, G.S. Singhvi, nel giorno del suo pensionamento. Un’altra coincidenza è che il verdetto, atteso dal 2012, è giunto pochi giorni dopo la vittoria alle elezioni amministrative di New Delhi del partito indù-nazionalista, che è legato alle associazioni religiose induiste che chiedevano il ripristino della legge anti-gay.