Alberto Arbasino, La Repubblica 12/12/2013, 12 dicembre 2013
LE RUGHE DELLA TRAVIATA CHE BRUTTA L’OPERA VISTA ALLA TV
Saranno ancora accettabili, oggi, quelle rimescolanze fra Pubblico e Privato che piacevano tanto al pubblico plaudente d’una volta? E dunque, tollerare adesso che un coro di ribelli montanari e banditi e «beviam! beviam!», non ancora sazi di canzoni «à boire» e incoraggiati da generose vivandiere, si prodighino fra grossi pericoli per sottrarre una giovane all’abborrito amplesso di «un vecchio Silva stendere» con purtroppo giovane core... Rischiare la vita per evitare un amplesso? Mah.
«Crescita della qualità, salvo sorprese», e «Forti segnali di discontinuità », secondo invece i titoli dei giornali, per lo «sciopero annunciato e poi rientrato dopo un vertice fiume», a causa dei tardivi o mancati pagamenti, fino al giorno prima, per questo Ernani inaugurale all’Opera di Roma. (Altro che «beviam beviam», quindi?).
Sfarzo e lusso nei costumi ricchissimi, piuttosto. E dalle prime file si poteva notare il fasto dei ricami e gingilli sui vari costumi, nonostante la fissità degli interni quali invariabili depositi d’attrezzeria, sulle montagne come nelle ricche sale o nei cupi avelli. Spagnoli o Alemanni. Se dunque l’allestimento di Hugo de Ana sa riutilizzare a basso costo i materiali e i ricami e i ninnoli, con crescita della qualità malgrado la crisi economica, allora i più vivi complimenti. E mai più annunci di scioperi.
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Crisi economica e tessuti semplici anche per il «grand opéra» alla Fenice, dove L’Africaine di Scribe e Meyerbeer sembra corrispondere all’immaginario di Salgari. Con qualche vaghezza geografica in più, tra africani e bramini. Ma tanto romanticismo, e parecchi dispiaceri, fra cori di consiglieri e di congiurati, regine schiave d’amore, potere, colère, naufragi di spedizioni colonialistiche, «Adamastòr re dell’onde profonde», rabbie, furori, deliri, scogli fatali, terrori, dolori, corrucci, assalti di indigeni...
...Mesti preludi, ad ogni atto, con proiezioni di fantasia, modeste. Ancelle che agghindano la primadonna. «La mia mano, pegno della vittoria»... Manca però comunque ogni Lisbona di adesso, piena di reduci disoccupati da quelle conquiste patriottiche, in competizione allora con Amerigo Vespucci. In compenso, un coro femminile e «campane a sera», a bordo di questo Vascello Fantasma, senza nessi con l’equipaggio solo maschile di Billy Budd. (Che quindi è più difficile, dicono).
«O grand saint Dominique, effroi de l’hérétique!», pulendo per terra, nell’imminenza del tifone. Petali radiosi per il trionfo di «O Paradis», gran successo anche senza bisogno di claque. «Mort à l’étranger!» da parte dei malgasci. Tanti autoritarismi. Molte autorevolezze. Arpe talvolta inopportune. Riecco il solito vecchio voglioso, pieno di brillantina. Balli piuttosto orrendi. Ma duetti piuttosto stupendi, con Gregory Kunde e Veronica Simeoni.
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Nell’Ernani può destare sospetto che tutti i congiurati spagnoli di «Si ridesti il leon di Castiglia » e «Siamo tutti di buona famiglia » si trasferiscano fra i «tepidi lavacri d’Aquisgrano», così lungi dalla Spagna nativa e lavorativa, facciano tutto il viaggio apposito, e si impegnino in un complotto effimero e vano (malgrado il successo e il bis dell’inno patriottico) mentre dall’avello di Carlo Magno appare Carlo Quinto, imperatore con tutto un ricco corteo e corona e scettro, alla faccia dei «traditor» che hanno appena bissato l’inno. Anni e anni dopo, al convento di Juste, lo stesso Carlo Quinto verrà applaudito come provvido salvatore del nipote omonimo, secondo il Don Carlo (ancora verdiano).
Fieri e gravi dubbi sulle identità, ogni volta, piuttosto. «Sono il bandito Ernani» e «mille guerrier m’inseguono, siccome belva i cani », dunque con gravi pericoli per quei ribelli? Oppure «Don Giovanni d’Aragona, riconosca ignun in me»? E se non lo riconoscono, benché affermi che «io sono conte, duca sono, di Segorbia, di Cardona», giacché riconoscono solo il re Ferdinando d’Aragona, sposo di Isabella di Castiglia, detta «La Cattolica», attribuendo ai librettisti poco ligi all’araldica ispanica i rimescolii fra i leoni del Leòn con i castelli della Castiglia?... Ma qui, imperatore e baritono impeccabile, Carlo Quinto: «Perdono a tutti. Mie brame ho dome. Sposi voi siate, v’amate ognor». Clemenza inaugurale. Non più decapitazioni per i nobili, né carceri per i popolani.
Sempre lì, però, il problema di questa orgogliosa vergine aragonese, alle prese con tre voci e tre età diverse. Un basso, vegliardo ancora focoso e sveglio. Un baritono di mezza età, che poi si toglie di mezzo perché ha altre mire. E un giovane tenore, ovviamente protagonista e preferito, fino al terribile guaio terminale?
Le rimane quindi qualche abborrito amplesso col vecchio, che dopo qualche coccolone le lascerà un’eredità cospicua, oltre al castello? Già, con tutte quelle ricche stanze e danze lì, sospirano certe madame.
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Nell’Africaine di Meyerbeer, addirittura le mutazioni dei turbamenti negli affetti della regina Sélika possono condurre il suo popolo verso un colonialismo sfruttatore portoghese, o a quell’animismo tipico nelle religioni primitive. Ecco dunque una danza estatica con tamburo prima della caccia, e coi teschi e le corna degli animali uccisi in sintonia con tutti gli aspetti propizi o minacciosi di una Natura problematica e magari antipatica. E rieccoci dunque nella attuale mostra fiorentina sulle Avanguardie russe girate verso la Siberia e gli Orienti. O nell’attuale Lisbona, così immiserita senza speranza dalle famiglie reduci senza soldi dagli ex-possessi oltremare. Rimpatriati in massa, e privi di risorse, in un paese proverbialmente misero. E i ristoranti ormai vuoti, oltre ai teatri ormai chiusi, spiegano fattualmente la fine di ogni Don Pédro e Don Diégo, di ogni Inès con ancelle e di qualunque Gran Inquisitore. Senza soldi, più niente. E l’Impero del Brasile può apparire una dolce chimera, come una notte a Madera.
Così, dietro ogni Africaine, voilà conquiste di invasori europei, espulsione dei poteri imperiali, inconsistenze mercuriali, però stabilimento di qualche British Imperialism nei territori d’occupazione. Nazionalismi, repubblicanesimi, colonialismi quali mondi «gambe all’aria». “Rotturismi” forse sottovalutati nelle cosmogonie indigene sopra una base legalmente estinta ma non completamente sviscerata di confracti ruder mundi, malgrado le segnalazioni e indicazioni portoghesi. Oltre la smaccata fascinazione oceanica, così teatrale in Vasco de Gama e ogni Grand Opéra di Scribe e Meyerbeer. Brutto affare, quindi, visto dalle crisi di Lisbona, senza soldi. E con debiti, per pagare i marittimi.
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Che viaggi, però. Dall’Aragona ad Aquisgrana. Anche se su questo palcoscenico-deposito romano mai cambia niente. Però, fra Mosa errante e corridor frementi e veltri ansanti (secondo il Manzoni, in mood analogo a «Come rugiada al cespite» e «Angiol fia consolator»), chissà in quante locande avranno dovuto pernottare, il vecchio Silva col suo corno pronto, Elvira con un minimo di ancelle, nonché Ernani ammantellato fra i congiurati con inno e pugnali e tavolette dalle porte minori del sotterraneo.
«Belli, liberi e giovani, tutti di buona famiglia, istruiti, ben educati, innamorati d’arte e di poesia, scrittori, pittori, architetti», invece – secondo Théophile Gautier – alla prima dell’Hernani di Victor Hugo al Théâtre-Français.
«Ci abbandonammo a innocenti ragazzate da artisti in erba». Altro che la platea dell’Opera di Roma. «Siamo già all’orgia con la prima parola? Si rompono i versi e si buttano dalla finestra! dice un classicista ammiratore di Voltaire coll’indulgente sorriso della saggezza verso la follia». Romantici!
Altro che capelli bianchi, e questo pubblico operistico tutto in uniforme da sera. «Il raso, il velluto, le gallonature, gli alamari, le guarnizioni di pelliccia, il gilet di seta corto che scopre l’addome, la cravatta di mussolina inamidata su cui affondare il mento, la marsina a coda di rondine, le punte dei colletti di tela bianca che fanno occhiello per gli occhiali d’oro... ». E tempeste, perché un re chiede «Est-il minuit?», e zoticamente gli rispondono «Minuit bientôt»...
Navigando invece per mare, nel Grand Opéra e nelle visioni oceaniche portoghesi, atlantiche e pacifiche, sarà poi tutto calmo e semplice? O invece si ridesterà qualche leone lisbonino o manuelino o di Belèm o del Tago, per le conquiste così patriottiche? «Braganza Extravaganza» si usava canticchiare una volta. E anche «Con te, una notte a Madera», puntualmente rimando con “chimera”. Ma né le Azzorre né l’Angola né il Mozambico e neanche Macao suscitano casseri o aurore che già colorano il placido mar per i pii marinar... E dovere andare al lavor, dopo il sopor, e i flutti in furor, col malevolo Adamastor...
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All’opera mal s’addice la televisione, si è sempre detto e risaputo, giacché mostra impietosamente non soltanto le boccacce aperte, ma i dettagli delle grassezze e delle età. Rughe di ciccia, attaccature di parrucche, ricci posticci, tutto ciò che giustamente si “slontana” sul palcoscenico, e non si può notare nei primi piani spiacevoli. Ma siccome in tv bisogna osservare tutto, purtroppo è inevitabile, forse così si spiegano le differenze di giudizio sulla protagonista della Traviata alla Scala: eccellente per chi la guardava con le distanze giuste, pingue e anziana per gli spettatori in tv. Un pessimo servizio, tutti quei primi piani.
Lo spettacolo è stato biasimato soprattutto perché si propone come “spaccato” di una modernità odierna. E allora ci si chiede subito, naturalmente, se questa viene rappresentata meglio dagli spettatori e spettatrici attuali della Scala, oppure da quei disgraziati malmessi in scena che secondo il libretto dovrebbero caratterizzare baroni e marchesi e viscontini. E la scelta di piazzare servi o cameriere come interlocutori muti può soltanto immiserire i sublimi trasporti lirici di Violetta o Alfredo, rivolti a un o una dipendente obbligati a star lì zitti.
Zingarelle e mattatori vengono qui semplicemente cantati da alcuni ospiti, mentre alla Traviata veneziana, alla Fenice l’anno scorso, per dare una buona idea di contemporaneità si allestivano delle mini-Folies Bergère caserecce.
Oltre tutto, un contrasto di ninnoli. Poche sedie in casa di Violetta e di Flora, come se le avessero appena affittate o comprate. E mai visto un letto, benché non manchi un vaso per i fiori finali. Ma quanti gingilli e tegamini e peluches accumulati da generazioni in campagna. Avranno preso in affitto una cucina piena di «barlafüs», chiedono quelle habituées per cui Visconti non aveva messo la parrucca da vecchio al bel giovane baritono Bastianini. E la Callas trasaliva quando Violetta s’accorgeva che «el papà l’è mieu che quel panzùn del tenúr». E i mariti: «Tranquila, l’averà conussü quand l’era ancamò in casìn».
Erano le signore per cui Tito Gobbi come Scarpia era il più bell’uomo. E quando lo videro negli stracci del Wozzeck protestarono vivacemente, e fermarono l’opera con urla di «Vergogna alla Scala! ». Chi c’era, può ricordare che il maestro Mitropoulos chiese di lasciarli lavorare, alla parola «lavurà » i milanesi s’acquietarono, e il giorno dopo i giornali pubblicarono che i milanesi non capiscono la musica di Berg. Ma questa l’ha sentita una signora più moderna, quando il tenore dell’Aida s’arrabbiò, è uscì, e venne soppiantato nel corso dell’atto da un sostituto in blue-jeans. E le coppie eleganti: «È un effetto di regìa?».