Federico Rampini, La Repubblica 12/12/2013, 12 dicembre 2013
JOHN GRISHAM “PROCESSO LA MIA AMERICA PAESE SENZA INNOCENZA”
NEW YORK «Prenda pure appunti, ma se registra è ancora meglio. Sa, l’ultima volta che sono finito sulla stampa italiana mi hanno fatto dire strane cose sul processo di Amanda Knox». L’esordio sembra circospetto,maèsoloun’apparenza.John Grisham è un uomo del profondo Sud: caloroso, passionale, battagliero come può esserlo un progressista cresciuto nelle terre del Ku Klux Klan. Pronto a scendere in campo per le cause che gli stanno a cuore: contro la pena di morte, Guantanamo, o il razzismo che rinasce sotto nuove spoglie. Lo intercetto in un suo breve passaggio a New York, metropoli esotica per lui che vive in campagna, tra la Virginia e una fattoria vittoriana del Mississippi, stile Via col Vento. Appena uscito, il suo nuovo romanzo L’ombra del sicomoro (edito in Italia da Mondadori) è balzato in testa ai best- seller del New York Times. E questa non è una sorpresa per l’inventore del filone dei legal-thriller: a 58 anni, Grisham appartiene all’esclusivo trio di autori capaci di vendere due milioni di copie alla prima tiratura (gli altri sono Tom Clancy e J.K. Rowling). Da quando smise di fare l’avvocato per dedicarsi alla letteratura, ha venduto quasi 300 milioni di libri nel mondo, molti sono diventati film d’autore (Il socio di Sidney Pollack, Il rapporto Pelican di Alan Pakula, L’uomo della pioggia, di Francis Ford Coppola). Non fa scalpore il suo successo ma il fatto che per la prima volta Grisham abbia creato un “sequel”, ripescando l’avvocato protagonista del suo primo libro, Jake Brigance, personaggio autobiografico. È sul tavolo di Jake che arriva il testamento esplosivo di un ricco industriale del Sud, morto suicida impiccandosi a un sicomoro. Il magnate disereda i suoi familiari per lasciare quasi tutto a una domestica nera...
Un personaggio del romanzo dice «nel Mississippi, tutto ruota attorno alla razza». È ancora vero nell’America di Barack Obama? L’idea di una nazione pacificata, post-razziale, si rivela illusoria?
«Non credo che l’America sarà mai post- razziale. Nella nostra storia c’è lo schiavismo, il più grande peccato originale dell’America. Certo, neppure il più ottimista dei liberal avrebbe immaginato l’elezione di un presidente nero, ancora qualche decennio fa. E invece Obama è arrivato, quasi all’improvviso. L’ho votato due volte, e se fosse possibile lo voterei pure una terza. Ma al quinto anno di governo, capisco la frustrazione di chi si aspettava cambiamenti superiori. È possibile cambiare il sistema in profondità, a Washington? Forse il ruolo del denaro nella politica è così invasivo da corrompere tutto».
Questo è un anno carico di simbolismi: il cinquantenario della marcia su Washington per i diritti civili dove Martin Luther King pronunciò «I Have a Dream», ora la morte di Mandela. Eppure negli Stati del Sud avanza una controffensiva per impedire il voto dei neri.
«Questa è una storia che conosco bene, è la mia storia. Nelle mie terre del Sud ci si è battuti cinquant’anni fa perché i neri potessero votare. Nell’anno in cui sono nato, il 1955, non un solo afroamericano veniva eletto nel Mississippi. Oggi il Mississippi elegge più parlamentari neri di qualunque altro Stato Usa. Ma i repubblicani, con l’aiuto della Corte suprema, stanno insidiando i diritti delle minoranze. In una nazione dove non esiste la carta d’identità, s’inventano requisiti e controlli speciali per l’accesso ai seggi elettorali, tutte barriere per impedire che votino i più poveri».
Lei dedica una parte dei suoi guadagni alla fondazione “The Innocence Project”. Ci spieghi di cosa si tratta.
«Ci sono migliaia di innocenti nelle carceri americane, e oggi abbiamo uno strumento straordinario per liberarli: le analisi del Dna. Attraverso The Innocence Project noi scegliamo una dozzina di casi all’anno (purtroppo non possiamo fare di più), otteniamo la revisione dei processi sulla base delle nuove analisi scientifiche. Abbiamo vinto 311 volte, 311 detenuti liberati: sembrano tanti e invece sono appena la punta dell’iceberg. È gratificante soprattutto quando sono condannati alla pena capitale: 130 di quei prigionieri erano nel braccio della morte. Ma è frustrante pensare alle altre migliaia che rimangono dentro, per delitti che non hanno commesso. Anche qui la razza conta: molti dei detenuti che vengono liberati grazie a The Innocence Project sono ragazzi neri e poveri, guarda caso».
Un altro suo intervento che suscitò clamore fu su Guantanamo: quest’anno lei ha scritto sul New York Times, in difesa di un prigioniero nel supercarcere militare. C’è ancora qualcuno che si ricorda di Guantanamo, in America?
«Quasi nessuno, eccetto i prigionieri e le loro famiglie. Quel che è impressionante, è che diversi prigionieri sono stati rilasciati dopo anni, con l’ammissione che non c’erano prove a loro carico. Io avevo creduto a Obama, quando promise che avrebbe chiuso Guantanamo: questa è stata una delle delusioni del presidente. Io mi sono preso a cuore in particolare la sorte di un algerino, Nabil: 12 anni di carcere duro, con violenze e torture, non una sola incriminazione. Sembra incredibile che il nostro governo possa fare cose talmente orrende».
Impariamo ogni giorno cose nuove su quello che fa il governo, anche quando forse non potrebbe. Di fronte alle rivelazioni sull’ampiezza dello spionaggio dei cittadini (email, telefonate) da parte della National Security Agency, lei è rimasto sorpreso?
«No davvero, né sorpreso né impreparato. Nulla di ciò che fanno la Nsa, la Cia o l’Fbi può sorprendermi. Sono irritato, magari, ma non stupito. Su questo devo dire che ho sentimenti contrastanti. Non sono totalmente negativo. Quando Obama dice che una cinquantina di attentati terroristici sono stati scongiurati o prevenuti grazie allo spionaggio, sono ben contento. È vero che in giro ci sono terroristi decisi a tutto, pronti a far esplodere palazzi e a uccidere cittadini innocenti. È sbagliato essere ingenui, le regole del gioco ci impongono di pagare qualche prezzo in termini di sorveglianza. Al tempo stesso, conoscendomi, se scoprissi che stanno intercettando le mie telefonate, so che la mia reazione sarebbe di costituirmi parte civile».
Lei ha inventato un genere, il thriller legale, che ha imitatori in tutto il mondo. Perché la giustizia “romanzata” appassiona tanto i lettori?
«E me lo chiede lei, che viene dal paese dei processi ad Amanda Knox e sulla Costa Concordia?»
Facciamo una verifica sull’attendibilità di Wikipedia. Alla voce John Grisham, in inglese, risulta che lei impiega sei mesi a scrivere un romanzo. E il suo autore preferito sarebbe John Le Carré.
«Vero e vero. Passate le vacanze di Natale, il primo gennaio mi metterò a scrivere il prossimo romanzo, aiutato dal freddo inverno e da tanto caffé Lavazza. Il primo luglio il mio agente newyorchese riceverà il testo. In quanto a Le Carré, tra i suoi romanzi il mio preferito rimane La tamburina».