Paolo Mereghetti, Corriere della Sera 10/12/2013, 10 dicembre 2013
IMPIEGATO INSEGUE LA SOLITUDINE NELL’INNO ALLA VITA DI PASOLINI
«Lei è unico, Mister May», dice a un certo punto l’addetto all’obitorio rivolgendosi al protagonista di Still Life . È un complimento, che però si rivela un’arma a doppio taglio perché l’«unicità» qui trascolora nella solitudine: John May (Eddie Marsan) è un uomo solo, che nella vita si occupa di persone altrettanto solitarie.
Impiegato comunale al «servizio utenti» del distretto londinese di Kensington, May deve prendersi cura di chi muore abbandonato da tutti: il suo compito è quello di cercare i possibili parenti per comunicare la notizia del decesso e invitarli a partecipare al funerale, che lo Stato organizza per tramite suo. Compito spesso infruttuoso, e infatti il film inizia, dopo la silenziosa inquadratura di un cimitero, con tre scene simili: una bara, un officiante e un’unica persona ad assistere, appunto John May. Cambia solo l’accompagnamento musicale, che May sceglie con puntiglioso scrupolo per rispettare le differenti «storie» dei defunti.
Still Life — «natura morta» nel gergo pittorico e fotografico — racconta di un mondo dove tutto si è fermato per sempre e lo fa attraverso gli occhi di una persona che con quell’universo deve confrontarsi quotidianamente. E di cui ha finito per prendere le «abitudini». Il suo ufficio è sottoterra, i suoi soli interlocutori sono le persone coinvolte nelle sepolture e nelle cremazioni, a casa non l’aspetta nessuno e la puntigliosa ripetitività del lavoro impiegatizio ha finito per impossessarsi anche della sua vita privata. Eppure il film ce lo mostra senza alcun accenno di ironia, con la stessa metodicità con cui May svolge il suo lavoro: attento nel cercare ogni possibile indizio quando esplora le povere abitazioni delle persone trovate morte, pignolo e puntuale nell’inseguire ogni minima traccia che possa portarlo a contattare un possibile parente, rispettoso comunque delle volontà altrui quando la rottura dei legami familiari è definitiva e irrevocabile. Ma anche rispettoso e appassionato di quelle vite con cui si è incontrato solo alla fine, come si intuisce quando scrive il compianto funebre da leggere al funerale, per il quale immagina i lati migliori di una vita che ha «conosciuto» solo attraverso esili indizi.
A interrompere questo percorso perfettamente ordinato arrivano due «sorprese»: da una parte l’identificazione del suo servizio con uno dei «rami secchi» da tagliare per ridurre le spese del Comune (e la scena in cui il responsabile lo comunica a May è emblematica della disumanità che ormai regola i rapporti di lavoro) e dall’altra la scoperta che il suo ultimo «caso», quello di un vecchio alcolizzato che abitava nel suo stesso caseggiato, può trasformarsi in un successo, perché la sua tenacia lo porta a scoprire più di un congiunto. E con una di loro — la figlia che non vedeva da decenni (Joanne Froggatt) — la conoscenza potrebbe forse diventare qualcos’altro.
Come il caso interverrà a modificare strade che sembravano già scritte, lo lasciamo scoprire allo spettatore. Qui vale la pena di sottolineare le scelte di regia e di messa in scena che Uberto Pasolini ha scelto. Produttore di successo (era suo Full Monty ) e già regista di un esordio riuscito a metà (Machan – La vera storia di una falsa squadra ), questo nipote di Luchino Visconti trasferitosi a Londra sceglie per Still Life uno stile di classica semplicità: inquadrature fisse che spesso «rimpiccioliscono» il protagonista riprendendolo leggermente dall’alto, essenzialità narrativa in sintonia con un’economia di mezzi espressivi efficace e funzionale, un ritmo pacato (che è molto diverso da lento) e calmo che in questi tempi concitati ha l’effetto di una boccata d’aria fresca e rigenerante.
Praticamente sempre in scena, lo straordinario Eddie Marsan riesce a trasmettere allo spettatore il peso ma anche i doveri di tutta una vita con una recitazione contenuta e controllatissima, fatta di sguardi muti e dialoghi essenziali, che inquadrature spesso frontali sottolineano con sorprendente efficacia. Arrivando a volte a dare l’impressione che i suoi occhi interroghino direttamente lo spettatore (come nella scena in cui esce dal Bed & Breakfast), quasi a instaurare una complicità capace di andare al di là della semplice occasione narrativa.
Tutto questo prende poi ulteriore forza perché l’universo in cui si muove May è quello di un mondo oggi tragicamente diffuso, fatto di persone svantaggiate e sole, la cui unica compagnia è spesso quella della bottiglia. May porta lo spettatore dentro le loro case, tutte uguali nel loro squallore fatto di locali anonimi, con calze e mutande stese ad asciugare, puzza di stantio e disordine diffuso, dove l’unico rapporto con gli altri è l’indifferenza. E ci mostra come spesso l’uomo sia il peggior nemico di se stesso. A meno che il destino non decida di giocare qualche strano tiro…