Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 11 Mercoledì calendario

LA RIVOLUZIONE CASUALE DELLO SHALE


La rivoluzione americana del petrolio e gas ha reso gli Stati Uniti quasi indipendenti dal punto di vista energetico, alimentando suggestioni dietrologiche o fantapolitiche su come Washington abbia coltivato questa rivoluzione e intenda sfruttarla.
In realtà, la rinascita degli idrocarburi a stelle e strisce si è compiuta per caso, senza un piano e nella disattenzione dei più, e ancora oggi non ha prodotto uno straccio di strategia per gestirla al meglio. Questi sono i fatti.
La rivoluzione partì in sordina alla fine degli anni 80 con le sperimentazioni di un piccolo petroliere indipendente, George Mitchell (paradossalmente uno dei pochi petrolieri democratici e ambientalisti), sull’utilizzo congiunto di due tecnologie già esistenti, la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica, ormai conosciuta come fracking . Il successo della sperimentazione si concretizzò nei primi anni 2000 nel giacimento di shale gas di Barnett, nel Texas. Fu l’inizio della rivoluzione, ma nessuno se ne accorse: né le grandi società petrolifere, che per quasi un decennio avrebbero considerato lo shale una «bolla temporanea», né gli ambientalisti, allora impegnati a combattere su altri fronti. Nemmeno i governi dell’epoca, allora guidati da George Bush, ne ebbero sentore.
Questa indifferenza consentì un passaggio importante per il successo dello shale. Nelle tante pagine della legge sull’energia del 2005, alcuni senatori inserirono una clausola ignorata dai più che impediva all’Epa - l’Agenzia di protezione ambientale - di regolare l’attività di fracking. Questo consentì a una miriade di piccole società petrolifere di gettarsi nello sviluppo dello shale gas mentre le grandi le schernivano. Tuttavia, nel 2011, la produzione di shale gas superò qualsiasi aspettativa tanto da travolgere il mercato e far crollare i prezzi del metano negli Usa a quasi un quinto di quelli vigenti allora in Europa. La sperimentazione si era già spostata sullo shale oil, ancora sotto la spinta di piccole società petrolifere, ancora con esiti travolgenti: la produzione Usa di greggio ha superato gli 8 milioni di barili al giorno (mbg), contro i 5 mbg prodotti nel 2005. La differenza vale più dell’intera produzione dell’Iran.
Ma anche di fronte al successo conclamato, il governo statunitense è rimasto uno spettatore inutile.
Tutto continua a essere affidato al caso, cioè alla determinazione dei singoli, mentre le autorità pubbliche non riescono a risolvere nemmeno i tanti problemi infrastrutturali che hanno accompagnato la rinascita energetica degli Usa. Il paese sembra una comunità di stati indipendenti, ciascuno segnato da differenti approcci ambientali che disegnano un panorama a macchia di leopardo ricco di incongruenze. Un po’ come l’Europa.
Partiamo dal gas. Il suo prezzo di riferimento negli Usa è circa un terzo di quello europeo ($3.80 per MBtu contro i $ 12 alla frontiera europea). Ma il prezzo di riferimento vale per gli stati ricchi di gas o prossimi (e ben collegati) ai grandi giacimenti. Se ci si sposta a New York, il prezzo sale del 50 per cento, mentre l’americano che vive in alcuni stati del nord-est, come il Massachusetts o il Maine, paga il metano più che in Europa. Prezzi elevati si pagano anche in Stati non toccati dalla bonanza, o in stati che sovraccaricano di tasse il metano per far fronte alle proprie esigenze di bilancio. In alcuni Stati dove non esistono gasdotti, come il Nord Dakota, la produzione di gas associata a quella di petrolio viene bruciata ai pozzi liberata in aria (cosa molto peggiore dal punto di vista dell’effetto serra).
Le incongruenze non si fermano qui. Esistono enormi giacimenti di shale gas che attraversano più stati. Il più grande, Marcellus, ne attraversa almeno sette sotto un’area che va da New York al Canada. Al momento rappresenta la principale fonte di crescita della produzione di gas degli Usa, ma alcuni degli Stati o delle contee che attraversa si oppongono al suo sfruttamento per motivi ambientali. Gli Stati più riottosi pagano il gas a caro prezzo, e si lamentano pure delle condizioni di favore che esistono negli Stati vicini. Perché lo squilibrio nei prezzi del gas sta ridisegnando lo sviluppo industriale e occupazionale americano. Molte attività economiche tendono a tornare (spesso anche dall’estero) o a spostarsi in prossimità dei luoghi dove il gas costa meno, come il Texas.
Ancora più assurda è la situazione nel petrolio, dove si sfiora il parossismo. Gli oleodotti attraversano un corridoio centrale che va dal Canada al Golfo del Messico. Sulla stessa direttrice si trovano i principali centri di raffinazione e stoccaggio. Il problema è che non esistono collegamenti tra il sistema di trasporto al centro degli Usa e le coste orientali e occidentali del paese: per raffinare greggio gli Stati costieri a est e ovest devono importarlo o riceverlo via nave da un altro porto degli Usa. Ma una legge del 1920 (Jones Act) prescrive che il trasporto di qualsiasi merce tra un porto e l’atro debba avvenire attraverso navi di piccole dimensioni battenti bandiera statunitense, con un notevole aggravio dei costi. E nessuno fino a oggi si è sognato di rivedere questa legge che rappresenta una smaccata negazione del libero mercato e un trionfo del protezionismo. Così, per esempio, lo shale oil prodotto in Nord Dakota, l’epicentro della rivoluzione shale per il petrolio, può muoversi via oleodotto solo lungo il corridoio centrale di trasporto e stoccaggio, sovraccaricando le strutture esistenti e competendo con il petrolio importato dal Canada. Nel frattempo, i raffinatori presenti nella stessa area esigono forti sconti per accettare quel greggio, dopo aver fatto investimenti miliardari nel passato per trattare altri tipi di petrolio. In particolare, oggi la Costa del Golfo è letteralmente inondata di greggio leggero, mentre molte raffinerie sono tarate per trattare greggi più pesanti. Ancora una volta, nessuna autorità pubblica ha risolto il problema, né ha provato a ipotizzare la costruzione di oleodotti federali che rendano più omogeneo il sistema di trasporto.
Nell’ultimo anno, una parziale soluzione è arrivata dal passato: molto greggio prodotto in Nord Dakota ha cominciato a viaggiare via treno verso la costa orientale e altre destinazioni - come nell’Ottocento di Rockefeller. Ma il problema dell’eccesso di greggio leggero permane e tende a aumentare: i produttori vorrebbero esportarlo, ma una legge del 1973 lo vieta per motivi di sicurezza nazionale.
Abbastanza cervellotica anche la situazione dei prodotti petroliferi, a partire dalla benzina. Ciascuno stato può imporre i suoi standard di qualità, cosicché la benzina prodotta in uno stato può risultare fuori norma in un altro stato. Il problema può essere risolto miscelando la benzina con altri additivi che la rendano «legale»: ma anche in questo caso il pedaggio da pagare è un aggravio di costo. Così, anche il prezzo della benzina varia sensibilmente da stato a stato, e perfino da contea a contea. In compenso, mentre il petrolio non può essere esportato, benzina e diesel si (altra stranezza americana), per cui molti raffinatori hanno incrementato sensibilmente le loro vendite di prodotti petroliferi all’estero.
Questi sono solo alcuni dei fatti che dimostrano come la più grande potenza del mondo sembri incapace di godere in modo uniforme o di sfruttare appieno la rivoluzione energetica che sta vivendo o di utilizzarla in chiave di politica internazionale - come vedremo in un prossimo articolo.
Leonardo_Maugeri@harvard.hks.edu



Prima di una serie
Nei prossimi giorni la seconda puntata