Tommaso Labranca, Libero 11/12/2013, 11 dicembre 2013
SOTTO LA TOMBA DI CHIARA OMERO DEL LAGO NASCOSTO
La tomba è un tozzo parallelepipedo spacciato per colonna e fregiato dal nome e dai due anni: Piero Chiara 1913 - 1986. Chiara non voleva essere seppellito qui, ma in mezzo al Verbano, nel piccolo cimitero dell’Isola dei Pescatori, però questa tomba lo rappresenta bene, geometrica e composta come la sua scrittura che nascondeva traffici notturni, corna, lacerazioni spirituali. Allo stesso modo questo sasso levigato cela un essere non proprio lineare e facile. A cominciare dalla grande beffa: l’uomo che più di qualsiasi altro rappresenta l’intera Insubria era di origini siciliane per parte di padre e nascosto in fondo alla sequela di nomi aveva anche un Carmelo. Solo per l’ostinazione della madre, Pierino evitò un pesante Liborio che doveva onorare il nonno paterno.
Chiara morì insieme all’anno, il 31 dicembre 1986. E nacque nel giorno di Pasqua, il 23 marzo 1913. Poche ore dopo l’inizio della primavera, mentre «l’ac - qua del lago cambiava lentamente colore e passava dal grigio ferro dell’inverno a un celeste leggero» e l’aria diventava «un lucido vetro», come avrebbe scritto molti anni dopo in La Spartizione. Nacque in un anno in cui il mondo era già balzato nel XX secolo, due mesi dopo la sua nascita sarebbe andato in scena per la prima volta Le Sacre du Printemps di Stravinskij. Pierino invece sarebbe rimasto avvolto ancora a lungo nel secolo precedente.
Sarà stato questo allontanamento dalle urla avanguardistiche novecentesche a fare del giovane Chiara, ribelle in tutti gli altri campi della vita, un cultore della grande letteratura classica. «Quante volte ho dovuto trattenermi, dopo aver copiato la prima pagina di Eugénie Grandet, delle Anime Morte o il proemio del Decameron, dal continuare a copiare tutto il libro … per scoprire i segreti del loro mestiere». Il risultato di quel rispetto si legge nei suoi libri dove i temi boccacceschi sono resi con una prosa manzoniana che non bastò e non basta ancora a tranquillizzare i benpensanti.
«Chiara? Non mi è mai piaciuto troppo. Non l’ho mai proposto a scuola, era così scollacciato e non rientrava tra i classici». Il giudizio di questa anziana professoressa di italiano era ampiamente condiviso negli anni Settanta. È una delle poche persone che ho incontrato a Luino in questo freddo pomeriggio, seduta sulle panchine del lungolago.
La vera difficoltà dello scrittore Piero Chiara è che per amarlo devi averlo letto. Non puoi fingere, come quando ci si dà un lustro culturale facendo cadere un nome nel discorso. Primo fra tutti, quello di Italo Calvino, di cui puoi non aver letto nulla, ma farai colpo parlando di situazioni calviniane.
Dopo essere passato dal cimitero vado al Caffè Clerici, decorato da alcune vecchie foto dello scrittore e adesso da una targa che ricorda i cento anni dalla nascita. Al caffè però non siede nessuno. Evidentemente quel mondo di scansafatiche o pensionati pettegoli di cui si è tanto letto nei romanzi, oggi preferisce perdere il proprio tempo a casa, davanti al gossip globale della televisione pomeridiana.
Inutile anche passare dal Metropole, da tempo non più albergo né Kursaal e che, assunto il pomposo nome di Palazzo Verbania, è sede in parte dismessa di esposizioni. Lì si svolgevano le storie narrate nel primo romanzo, Il piatto piange, oggetto di un altro anniversario in quanto pubblicato nel 1963, quando Chiara aveva già mezzo secolo. «Poi, senza che avessi fatto nulla per meritarmelo, a cinquant’anni è venuto questo dono dello scrivere, e questo successo, quale che sia», scriverà in una delle sue ultime lettere. Meglio camminare sul lungo lago, nonostante il freddo, sfiorando la balaustra decorata da ingenue barche a vela colorate che vedevo quando ero piccolo e che oggi ricerco nei film tratti dai romanzi di Chiara, non tutti capolavori cinematografici, per confrontare l’allora con l’adesso. Oggi, tempo in cui anche se sei della provincia di Brescia devi ambientare i tuoi romanzi a New York, perché è così cheap parlare della provincia italiota. La realtà è che non lo sa fare quasi più nessuno.
«In Luino vi è qualcosa di inesprimibile e di spirituale che non può andare vestito di parole». Così inizia la frase incisa sulla targa commemorativa che vado a rileggermi al Clerici. Chiara le aveva scritte per l’Avvenire del Verbano nel 1934, quasi trent’anni prima di iniziare la sua strepitosa carriera di scrittore, contraddicendo se stesso nel momento in cui si trasformò nel perfetto cantore di Luino.