Umberto De Giovannangeli, L’Unità 11/12/2013, 11 dicembre 2013
INTESA SULL’ACQUA CON L’ANP ISRAELE RIAPRE I RUBINETTI
La pace riparte dall’acqua. Un bene per il quale in Medio Oriente si sono combattute guerre più che per il petrolio. Israele, la Giordania e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) hanno firmato uno «storico» accordo per la condivisione delle risorse idriche, un’iniziativa che dovrebbe proteggere il Mar Morto dalla crescente domanda di acqua nella regione. Il progetto prevede un nuovo impianto di dissalazione ad Aqaba, che consenta di convogliare quasi 200 milioni di metri cubi d’acqua all’anno nelle aree che soffrono di più la carenza idrica, come fulcro di un accordo di condivisione che collega il Mar Rosso, il Mar Morto e il Lago di Tiberiade. In particolare, Israele dovrà vendere ai palestinesi dai 20 ai 30 milioni di metri cubi supplementari di acqua desalinizzata. Un’altra parte delle risorse idriche, invece, saranno fatte defluire verso il Mar Morto, che senza questo intervento rischia di prosciugarsi entro il 2050. «È un barlume di speranza sul fatto che possiamo superare altri ostacoli in futuro», ha commentato Silvan Shalom, il ministro israeliano per l’Energia e le Risorse Energetiche, alla cerimonia di firma presso la Banca Mondiale di Washington. «Abbiamo dimostrato che si può lavorare insieme nonostante le differenze», gli ha fatto eco il ministro palestinese per le acque, Shaddad Attili. L’intesa è arrivata al culmine di 11 anni di trattative e nelle settimane in cui Stati Uniti lavorano per siglare un accordo di pace tra israeliani e palestinesi. A esprimere soddisfazione per l’intesa raggiunta è anche padre Raed Abusahliah, direttore generale di Caritas Jerusalem, che la reputa «importante per i Territori palestinesi che soffrono di scarsità di risorse idriche e per salvare il Mar Morto». Sin dall’inizio dell’occupazione israeliana della West Bank e della Striscia di Gaza nel 1967, le provviste di acqua per i palestinesi non copriva il fabbisogno di base. Il consumo domestico pro capite in questi anni era intorno ai 20-35 litri pro capite al giorno, molto lontano dai 150 litri raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. A indicarlo è uno studio presentato e condotto dal Palestine Ilidrology Group (PHG), un gruppo indipendente, il quale fornisce una valutazione critica dei progetti per lo sviluppo dell’acqua nella parte meridionale della West Bank. Le autorità occupanti hanno permesso solo lo sviluppo di infrastrutture secondarie, creando così un sistema antiquato che ha portato alla dispersione di enormi quantità di acqua. Inoltre, non più tardi del 1995 Israele ha sfruttato l’85% dell’acqua di superficie palestinese incanalando questa risorsa verso gli insediamenti dei suoi coloni presenti nella West Bank e nello stesso territorio di Israele.
UN LITRO A SEI
L’intesa raggiunta lunedì scorso può rappresentare l’inizio di una svolta storica se contribuirà a porre fine all’«apartheid dell’acqua» nei Territori occupati. Se gli Accordi di Oslo garantivano ampio accesso alle risorse idriche nei Territori Occupati, i palestinesi oggi godono delle proprie risorse naturali in misura minima. La popolazione si è vista ridurre l’accesso all’acqua dai 118 milioni di metri cubi l’anno previsti da Oslo ai 98 milioni del 2010 - una riduzione di quasi il 20 per cento. Nello stesso periodo, il numero di coloni israeliani in Cisgiordania è aumentato raggiungendo il mezzo milione: i coloni consumano 6 volte l’ammontare d’acqua previsto per fini domestici dei 2,6 milioni di palestinesi residenti. Tale discrepanza è ancora maggiore se si tiene conto dell’acqua utilizzata per l’agricoltura. Seppure l’area della falda montana si trova in Cisgiordania, le estrazioni israeliane ammontano all’89% delle risorse idriche, che vanno a rifornire i coloni israeliani e gli israeliani residenti in Israele. «Non solo Israele continua a fare profitto dall’occupazione dei Territori, ma ha imposto un sistema di water-apartheid. E una pratica che assoggetta la popolazione palestinese e garantisce che l’unico possibile sviluppo sia quello delle colonie residenziali ed agricole rimarca Shawan Jabarin, direttore generale dell’associazione palestinese per i diritti umani Al Haq. Ora Israele ha riaperto, in parte, i rubinetti. Una goccia di speranza.