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 2013  dicembre 11 Mercoledì calendario

DA CAPANNA AI BACI QUEI GESTI INSOLITI TRA PIAZZA E AGENTI


Una delle foto simbolo degli Anni 70 ritrae il commissario Luigi Calabresi che si interpone alzando la mano tra le forze dell’ordine e i manifestanti, per evitare lo scontro. Uno dei personaggi emblematici del Maggio ‘68 è il ragazzo ribelle che affronta il padre poliziotto urlandogli in faccia: «Porco!». L’uomo pianse in silenzio, confortato dai colleghi. Scrive Mario Capanna in «Formidabili quegli anni» di aver preso il megafono, alla prima della Scala del 1968, per arringare i celerini: «Quattro giorni fa vi hanno fatto sparare su una folla di braccianti, ad Avola, dove magari c’era tuo padre o tuo fratello...». Al che Capanna nota «un agente, rigido sull’attenti nella fila, giovane, avrà 22 anni, alto e magro come uno stecco, con le lacrime che gli scendono. Lo abbraccio forte. Mentre lo stringo, lo sento mormorare: “Sono di Lentini”. Lentini è un grande centro agricolo, a un tiro di schioppo da Avola...». Un racconto ripreso da Giorgio Bocca ne «Il provinciale», come esempio di retorica pseudorivoluzionaria. Scrive Giampaolo Pansa in «Sangue sesso e soldi» che in un altro corteo milanese una ragazza affrontò gli agenti denudandosi e gridando che il suo corpo non era per loro, «servi dello Stato», ma semmai «per la classe operaia». Il rapporto tra i manifestanti e i poliziotti (o i militari) è da sempre fonte di episodi simbolici, di leggende, di miti dalla forte carica evocativa. L’incontro tra il potere e la rabbia, tra l’ordine e il disordine, tra l’autorità e la rivolta ha portato spesso alla negazione dell’umanità altrui, talvolta a segni di reciproca comprensione. Senza rievocare le insurrezioni parigine dell’800 e l’abbraccio tra la folla e i generali zaristi nella prima rivoluzione russa nel febbraio 1917, le rivolte antisovietiche dell’Est europeo e la rivoluzione portoghese con le ragazze che donano garofani ai reduci delle guerre coloniali di Salazar e Caetano, pure nelle nostre piazze si sono viste scene che rivelavano l’animo umano e lo spirito del tempo. E la loro interpretazione non è quasi mai univoca né semplice. Dopo Valle Giulia Pasolini simpatizzò con i poliziotti, ma in altre circostanze fu vicino ai manifestanti. E anche nei giorni neri del G8, oltre a testimoniare l’inaccettabile ferocia della Diaz e di Bolzaneto, i cronisti raccolsero lo sfogo di padri di famiglia in divisa che soffrivano per l’odio e il disprezzo espressi dai coetanei dei loro figli. Dimostrazione di autocontrollo hanno spesso dato i poliziotti impegnati in Val Susa, dove è stato male interpretato il gesto della ragazza no Tav che bacia la visiera dell’agente: non era un segno di pace ma una provocazione verso un nemico odiato, come lei stessa ha spiegato in un lungo servizio del Tg1. Togliersi i caschi di fronte ai manifestanti, com’è accaduto lunedì a Torino e a Genova, non rappresenta in sé un’adesione alla protesta. È un metodo per distendere gli animi. Ma è anche un segno per riconoscere che di fronte non c’è un nemico irriducibile, come gli ultrà delle curve o i centri sociali più duri, ma un interlocutore non pregiudizialmente ostile, con cui è possibile un confronto per evitare violenze e ripristinare la legalità. Chi biasima quegli agenti forse non si è mai trovato in uno scontro di piazza.