Carlo Verdelli, La Repubblica 11/12/2013, 11 dicembre 2013
LE VITE SOSPESE DEGLI SCOMPARSI D’ITALIA
PAOLO Andrea ha la stessa faccia sorridente e improbabile che hanno i giovani nelle foto sulle tombe. Solo che lui non è morto. Lunedì 10 novembre 2003, ore 16, dice al fratello che si allontana un secondo. Non è più tornato. Impossibile per chi resta elaborare il lutto, perché non
c’è un lutto.
Paolo Andrea ha la stessa faccia sorridente e improbabile che hanno i giovani nelle foto sulle tombe. Solo che lui non è morto. Lunedì 10 novembre 2003, ore 16, dice al fratello con cui sta montando scaffali a Valmadrera, sul lago di Lecco, che si allontana un secondo. Non è più tornato, il corpo non è stato trovato, nessun segnale di nessun tipo alla famiglia. Impossibile per chi resta elaborare il lutto, perché non c’è un lutto.C’è un’assenza, un buco nero che si è inghiottito tuo figlio, o tua sorella, o comunque una parte della tua vita. E per quanto tu non ti arrenda, per quanto tu sia pronto ad andare in capo al mondo a verificare una segnalazione, per quanto dieci anni siano un tempo che consiglierebbe di mettersi l’animo in pace, non è possibile la pace. Perché Paolo Andrea Cofferati (nessuna parentela) c’è ancora anche se non c’è più. Pare che a dargli scacco matto, a spingerlo a far saltare il suo banco e a disconnettersi, sia stata una crisi con la moglie. Si erano sposati da un anno, non avevano figli, tra loro non funzionava granché, tanto che avevano tentato un’improbabile seconda luna di miele in Egitto, finita con lei che si invaghisce di uno del posto e lui che al rientro fa le valigie e torna a casa dai suoi. Basta questo per togliersi non la vita, ma dalla vita?
L’unica certezza è che Paolo Andrea Cofferati è in folta e silenziosa compagnia. Una popolatissima Spoon River dove, al posto dei cadaveri, ci sono immagini di persone che senza preavviso hanno lasciato il posto dove abitavano e si sono infilate in un mondo parallelo e misterioso. Il sito di Chi l’ha visto,
storica trasmissione di Raitre in onda dal 1989, esempio di servizio pubblico come pochi altri, è la più preziosa e documentata banca dati di questa indecifrabile migrazione.
Le pagine dedicate agli scomparsi sono 80, ciascuna con 15 profili (il totale fa circa 1200), più uomini che donne, molti stranieri, persino un frate cinquantenne, Michele Bottacin, che nel 2002, di ritorno dall’Angola per una vacanza sulle Dolomiti, si allontana su una Seicento verso il passo Cibiana e non ricompare più, nonostante le ricerche del gruppo alpino di Belluno. Scorrendo l’ordine alfabetico, spunta la testa calva di Andrea Briatore, 35 anni, un tatuaggio sul braccio sinistro con la scritta «tutto quel che accade, dalle cose grandi alle piccole, accade necessariamente», dileguatosi in aprile dall’ospedale di Savona dov’era ricoverato, fumatore di Philip Morris gialle; Leonello Catalani, architetto di 54 anni, scapolo, che il 16 novembre a sorpresa non si presenta al consueto pranzo con genitori e fratello nel viterbese, lasciandosi alle spalle la sua Peugeot 206 celeste regolarmente parcheggiata, con dentro cellulare e patente, e le luci della cucina accese in casa, come sempre quando andava fuori; più o meno le stesse mosse di Fabio Foti, 35 anni, ragioniere e single, che una sera del gennaio 1998 esce dall’ufficio della Sony di Roma e, svanendo, consegna all’angoscia un padre che da allora non smette di cercarlo, compagno di disperazione di un altro genitore, quello di Biagio Spezzano, 24 anni, calabrese, descritto come «intristito» perché non trovava lavoro: dal 2004, il suo di padre gira l’Italia affiggendo la foto del figlio in ogni stazione ferroviaria. Un altro disoccupato, Massimo Lampasi, venticinquenne di Serra San Bruno (Vibo Valentia), «una bambina di 4 mesi che adora», domenica 24 febbraio di quest’anno, alle 18.30, dice alla compagna che scende a comprare le sigarette e non si porta dietro il cellulare, «tanto risalgo subito». Non è risalito, come non è tornata dalle compere alla vigilia del suo compleanno Maria Floriana Del Pizzo di Napoli, che aveva 42 anni nel 2003. L’anno prima, a Catania, Gaetana «Tania» Greco andava in posta a fare un versamento sul conto che il suo fidanzato Rosario aveva aperto per loro due, visto che avevano deciso di sposarsi. Di Rosario non sappiamo, ma la madre Concetta non vuole arrendersi: «La mia Tania non avrebbe mai deciso nulla senza avvisarmi. Fatemela riabbracciare».
Non a caso, le chiamano «vite sospese» e sono così tante che la presidenza irlandese ha proposto che il 4 dicembre diventi la giornata europea delle persone scomparse. Un fenomeno che può sembrare paradossale nell’epoca di Big Data, l’evoluzione a potenza del Grande Fratello, dove tutti siamo controllati, monitorati nei nostri gusti e disgusti, tracciabili e quindi potenzialmente rintracciabili in ogni istante. Ma la rete, per quanto a maglie digitali molto strette, ha con tutta evidenza dei buchi.
In Italia, gli spariti sarebbero 27 mila, cominciando a contare dagli anni Settanta: 10 mila italiani, 17 mila stranieri (la metà sono donne, soprattutto dell’est Europa e extracomunitarie: 2 al giorno solo nel 2012, secondo una terrificante stima del ministero dell’Interno); 15 mila maggiorenni e 12 mila minorenni. Il dato più preoccupante è che, complessivamente, gli scomparsi erano 25 mila nel 2011. Duemila in più in due anni, dati ufficiali del Viminale, anche se approssimati in eccesso per disordine nella gestione degli elenchi.
Uno scivolo sul vuoto nel quale comunque si imbucano sempre più ragazzi e ragazze, bambini (figli contesi, spesso all’interno di matrimoni misti, rapiti da uno dei genitori) e anziani (molti i malati di Alzheimer o di patologie legate all’età avanzata). Dove spariscono quelli che spariscono? Quale orco o fantasma se li è presi? E perché lo fanno, almeno quelli che scelgono di farlo? Il punto è proprio questo: quelli che scelgono di farlo sono la stragrande maggioranza, quasi il 70 % del totale, contro un 20 % per disturbi psicologici gravi, e la rimanenza divisa tra incidenti, omicidi occultati, accadimenti non spiegati o spiegabili.
Gabriele Schiavini è un uomo di instancabile mitezza e un cacciatore tra i più attivi di orchi e fantasmi. Ha 73 anni, è stato dirigente di banca, vive nell’ultima villetta prima della campagna in un paesino, Misinto, a metà strada tra Milano e Como. Si rigira tra le mani le foto del suo Paolino Andrea (Cofferati, pagina 38 del sito di “Chi l’ha visto”), il figlio della sorella Giovanna, nipote amatissimo, naufrago di un matrimonio infelice. Si ferma su un’immagine dove il ragazzo si copre mezzo viso con un braccio ma ride con gli occhi. «Era così, sempre scherzoso, estroverso. Certo, la rottura con la moglie lo tormentava. Ma il giorno prima di sparire, allora aveva 32 anni, era passato per chiedermi di tenere d’occhio certi suoi investimenti in azioni. Mi era sembrato di umore ottimo. Capita spesso alla vigilia del salto nel buio».
Il signor Schiavini ha molta esperienza in materia. Ha conosciuto la pena devastante di quando ti rendi conto che una parte del tuo mondo e del tuo cuore è schizzata chissà dove. Ha cominciato a condividere il panico inguaribile della sua famiglia con quella di altre famiglie smarrite dallo smarrimento di un parente. Dal 2008 è il responsabile per la Lombardia (la seconda regione per numero di scomparsi dopo il Lazio e prima di Campania e Sicilia) dell’associazione Penelope, il primo e più importante tentativo italiano di aiuto a chi è condannato a sperare nel ritorno del suo Ulisse e, insieme, di stimolo alle istituzioni per migliorare la ricerca di chi non vuole, o non può, farsi trovare.
“Penelope” l’ha voluta e fondata Gildo Claps, il fratello maggiore di Elisa, dopo 9 anni che sua sorella veniva data sbrigativamente per dispersa. I conti su una sua presunta fuga non tornavano: troppo brava, Elisa, sedicenne tutta studio, chiesa e un futuro immaginato in “Medici senza frontiere”, per non pensare che quel 12 settembre 1993, mentre camminava verso il coro della sua chiesa a Potenza, fosse successo qualcosa di macabro. «Noi familiari avevamo indicato subito Danilo Restivo, che si era presentato al pronto soccorso con gli abiti insanguinati e una ferita alla mano, come una persona che sapeva molto di più di quanto raccontava», ricorda Gildo. «Non ci hanno creduto. Si portano sulla coscienza, oltre ai 17 anni che ci sono voluti per ritrovare i resti di Elisa nel sottotetto della Santissima Trinità, anche un’altra vittima, Heather Barnett, uccisa proprio da Restivo nel Dorset». Ci sono, nel caso Claps, diverse analogie con il mistero che ancora avvolge Emanuela Orlandi (15 anni, seguiva corsi di pianoforte al Pontificio istituto di musica sacra, scomparsa a Roma nel 1983): indagini risibili, depistaggi, coinvolgimento di poteri forti e oscuri come quelli di parti deviate di una Curia.
Non si trova anche perché qualche volta non si cerca, o si cerca male, o non si vuole cercare. Nel 1994, Ylenia Carrisi, la figlia di Al Bano e Romina. Nel 1996, Angela Celentano, la bambina di 3 anni rapita sul Monte Faito e diventata simbolo della inconcepibile crudeltà di un cerchio familiare, quella stessa crudeltà che dissolve nel nulla da Mazara del Vallo, nel 2004, Denise Pipitone, 4 anni. Sono ancora vive? Oppure, dove riposano? E chi è stato? «Le prime 48 ore sono determinanti per capire davvero la soglia di allarme e intervenire. Sprecate quelle, tutto diventa più difficile», spiega Claps, che dopo vent’anni di battaglie per la sua Elisa e dieci per dare forza alla sua “Penelope”, ora si dedica a una scuola di lingue, sempre a Potenza.
Molto è stato fatto, da quel 2002, per portare conforto a chi è nell’occhio di un ciclone che può durare anni, decenni o per sempre. Per esempio, dal 2007 c’è un commissario straordinario del Governo per le persone scomparse (ma l’ultimo, il prefetto Paola Basilone, è stato trasferito a Torino per l’emergenza Val di Susa e non è ancora stato sostituito): ci lavorano 13 persone, tra operativi e amministrativi, con tanta buona volontà ma non con altrettanti mezzi e senza la necessaria autonomia per guidare indagini interforze e coordinare i collegamenti con l’Europa. Un’authority indipendente sarebbe meglio, e così dei commissari che non vadano a scadenza come lo yogurt (3 in 5 anni); ma almeno un avamposto esiste. Come esiste, dal 2012, una legge (la 203) che riconosce la figura dello scomparso dal punto di vista legale. In compenso, manca una banca dati centralizzata dei Dna che permetta di incrociare i dati genetici degli spariti con quelli dei cadaveri non identificati (che non sono pochi, 852). Scarsa anche la certezza sui dati o sulle casistiche di quanti non sono più reperibili. Persino su quanti ritornano, o vengono scovati e spinti a tornare, si va a spanne. L’ultimo rapporto del Commissario straordinario parla di 1323 «rintracciati in vita» su 2611 denunce arrivate a quell’ufficio dal 2007. E le altre denunce depositate altrove?
«Un questore mi ha detto: devo vedermi “Chi l’ha visto” per sapere chi è scomparso», nota con legittimo orgoglio Federica Sciarelli, che conduce il programma da dieci edizioni, una macchina oliatissima di una trentina di persone, un centralino e un sito aperto 24 ore tutti i giorni, almeno due o tre casi risolti a settimana. Doppio orgoglio: mercoledì 27 novembre, in una sfida tra diversamente eclissati, ha battuto di due punti di share (10,6 contro 8,5) lo speciale di Bruno Vespa sulla decadenza di Berlusconi da senatore, riportando a casa un signore che era finito a fare il barbone alla stazione Termini e sbugiardando uno chef che sosteneva di aver visto Roberta Ragusa a Cannes (Roberta, viso molto bello, occhi altrettanto, sposata con due figli, è uscita in pigiama rosa e ciabatte intorno alla mezzanotte del 14 gennaio; il marito, Antonio Logli, è indagato per omicidio volontario e occultamento di cadavere insieme al padre Valdemaro e alla nuova compagna Sara). «L’esperienza mi dice che è molto improbabile che una mamma scappi di notte lasciando i figli. A scegliere di sparire sono più gli uomini che le donne, ultimamente anche per la vergogna di aver perso il lavoro».
Quella della vergogna è una molla potentissima. Racconta Franco Ponzi, detective privato della famiglia di cui il grande e grosso Tom fu capostipite: «Una volta abbiamo acciuffato un trentenne pugliese mentre era in fila a Marsiglia per entrare nella legione straniera. Era finito lì perché si sentiva un calimero, schiacciato da un padre e da un fratello ingombranti. Voleva dimostrare che era in gamba anche lui».
Dimostrare di essere vincenti, l’incapacità di sostenere i fallimenti, che siano nella professione, a scuola o nei sentimenti, l’accumulo di sensi di colpa per non essere stati all’altezza di qualcosa o delle aspettative di qualcuno: chi studia il fenomeno delle sparizioni come Fabio Sbattella, docente di psicologia dell’emergenza alla Cattolica di Milano, sa di avere a che fare con un terreno complicatissimo. «Non sono tutti alle Maldive con l’amante, come si dice nei bar. Sono circuiti, quelli degli spariti, di sofferenza estrema, di solitudine, di ascolto invocato e non ricevuto, specie tra gli adolescenti. La crisi economica accelera i processi: è un peccato sociale essere debole, passi per sfigato, sei il primo a non perdonartelo. E allora la fuga diventa l’apertura dirompente verso un cambiamento radicale: non sono più una pedina degli scacchi, esco dal gioco. Ecco perché poi è così difficile mandare anche un piccolo messaggio a chi hai lasciato nell’altra vita. Per sopravvivere, si opera una scissione radicale: quello che c’era dietro non esiste più». Con l’associazione di volontariato «Psicologi per i popoli», una specie di pronto soccorso per l’anima in casi come il naufragio della Costa Concordia o lo tsunami nello Sri Lanka, il professor Sbattella sta lavorando anche con gli addolorati familiari di «Penelope ». Il mite e infaticabile signor Schiavini, lo zio di Paolo Andrea Cofferati, gli chiede strumenti per capire di più, se possibile per prevenire. Lo chiede per sé e per tutte le persone che sono rimaste al di qua, in qualche modo abbandonate e ferite a vita.
Quando suo nipote è scomparso, dieci anni fa, c’era ancora papa Wojtyla, Bush era presidente degli Usa, Ciampi d’Italia, Giuseppe Morchio a capo della Fiat, Berlusconi in sella al governo. Un altro mondo. «Eppure, quando in casa di mia sorella Giovanna suona il telefono, lei va ancora a rispondere col batticuore: sarà lui? Sarà finalmente mio figlio che mi chiama?».